“Algoritmo controllo - Imitation of consciousness”- Episodio 16
di Tommaso Landi
L’allerta rossa
Como, 16 settembre, ore 01:30.
Finita la cena Matteo si era messo in macchina.
Il tempo era orribile e non potendo tornare a Villa d’Este, dove accanto all’ufficio aveva una camera, decise di andare a Menaggio, nel suo grazioso monolocale vista lago che spesso affittava ai turisti ma che ora, a causa delle pessime previsioni meteo diffuse nei giorni precedenti, era libero.
La strada Regina nonostante l’allerta rossa non lo spaventava, sapeva di essere un ottimo pilota.
Il lago di Como non era un luogo di villeggiatura quella notte, ma una fossa nera e ribollente.
Il cielo sopra le Prealpi aveva esaurito tutta la sua mitezza estiva tre ore prima, trasformando la quiete lombarda in un pandemonio idrogeologico.
L’allerta diramata dalla Protezione Civile non era un consiglio, ma una condanna per quelle zone che, negli ultimi anni, si erano scoperte fragili.
Di Lauri però aveva fatto buon gioco a cattiva sorte e si era predisposto a percorrere la Regina, quella cicatrice lunga e stretta che tagliava il versante occidentale del lago, mentre la tempesta dava il meglio di sé, era un ottimo guidatore e poco incline a seguire i consigli, tanto meno quelli dei meteorologi.
La sua auto Janus, un nuovo modello equipaggiato con un sistema di guida assistita di Livello quattro, era un’isola di tecnologia in mezzo all’anarchia della natura.
L’abitacolo dava la sensazione di galleggiare in una bolla, ma sul volante l’assalto del temporale si faceva sentire.
I fulmini saettavano bianchi e accecanti squarciando l’oscurità a intervalli irregolari, illuminando per frazioni di secondo un panorama irriconoscibile: la parete rocciosa a sinistra, quasi verticale, e lo strapiombo immediato a destra, dove le onde furibonde del lago sbattevano contro i massi.
I versanti, già fragili, erano impregnati d’acqua e pronti a cedere senza preavviso.
Di Lauri, che manteneva le mani leggermente appoggiate al volante in una postura rilassata ma vigile, aveva impostato il sistema di guida Aegis a 70 chilometri orari.
L’Aegis era il suo copilota invisibile, un complesso balletto di sensori LiDAR ad alta risoluzione, radar pulsanti a medio raggio e telecamere stereoscopiche.
Questo apparato superava di gran lunga la capacità di percezione umana sotto la pioggia battente, gestendo l’aderenza con calcoli microsecondo per microsecondo. Pur fidandosi della sua macchina, rimaneva in allerta pronto ad intervenire se fosse stato necessario correggere una qualsiasi decisione dell’AI che di fatto guidava al posto suo.
La pioggia si infrangeva sul parabrezza con la violenza di un idrante, ma il sistema avanzato che coordinava i tergicristalli permetteva di vedere la strada mentre un sensore ottico tracciava sicuro la linea della carreggiata con precisione millimetrica.
Superato un breve tratto rettilineo, il LiDAR del veicolo registrò una presenza: una sagoma che appariva e svaniva tra gli spruzzi sollevati dalle gomme posteriori.
Era senza dubbio un veicolo in movimento, estremamente veloce, che aveva appena inforcato, con una nonchalance sorprendente per le condizioni meteo, una curva a gomito poco prima superata da Di Lauri.
Poi fu lì. Una Mercedes.
Non una qualsiasi, ma una Maybach, massiccia e scura, probabilmente un modello Night Series, la cui vernice in ossidiana nera assorbiva la poca luce dei lampioni occasionali.
La Macchina era la quint’essenza dell’anonimato, e Di Lauri pensò che alla guida ci fosse qualche NCC spregiudicato non disposto a saltare un transfert di turisti neppure con questo tempaccio.
Un lampo più lungo del solito rivelò vetri interamente oscurati in spregio al codice della strada.
La stranezza catturò brevemente la sua attenzione.
Sul tettuccio spiccava una strana appendice, non la tipica antenna a pinna di squalo, ma una gobba, leggermente più spessa, integrata così fluidamente nella linea del tettuccio da sembrare un semplice elemento di design o un innocuo ricevitore per chiamate satellitari.
Di Lauri non poteva sapere che quello era un emettitore HPM (High-Power Microwave), un’arma a energia diretta, concepita per causare effetti devastanti grazie all’uso dell’energia elettromagnetica concentrata.
Il sistema di pilotaggio assistito Aegis percepiva l’inseguitore.
Il display olografico sul parabrezza di Di Lauri mostrava, facendo lampeggiare una sagoma rossa accompagnata da un bip inquietante, la Mercedes che mangiava distanza rapidamente, ignorando ogni logica di sicurezza sulla strada allagata.
L’inseguitore ridusse il divario a pochi metri per poi adeguarsi alla velocità e alla traiettoria del veicolo che lo precedeva, mettendosi in scia, una posizione ottimale per investire con il fascio emesso dall’HPM la Janus.
Le due auto a poca distanza tra loro stavano affrontando una delle curve più strette e insidiose della strada Regina, un tornante cieco che si apriva su uno strapiombo particolarmente esposto.
In quel punto, l’acqua si accumulava sull’unica corsia e il vento, incanalandosi dalla montagna, sferzava l’auto di Matteo con una violenza inaudita che la destabilizzava rendendo indispensabile l’assistenza elettronica alla guida.
Quello era il luogo scelto per l’attacco, un punto in cui una perdita di aderenza, anche per una frazione di secondo, avrebbe avuto conseguenze catastrofiche.
Di Lauri, assecondando il suo istinto, decise di prendere il controllo della guida, ma l’Aegis era ancora in modalità attiva e l’overdrive manuale completo richiedeva un secondo per disinnestare i sistemi di emergenza elettronica.
Ma un secondo, a settanta chilometri orari in un tornante cieco, era un’eternità.
Non ci fu nessuna esplosione. Non ci fu il lampo di un laser accecante quanto quelli della tempesta.
Ci fu solo un lieve pop ultrasonico coperto dal fragore della pioggia.
L’arma HPM venne attivata, sparando un impulso di microonde ad alta potenza. L’onda invisibile, viaggiando alla velocità della luce, penetrò la carrozzeria della Janus, puntando dritta ai centri nevralgici digitali dell’auto.
L’effetto fu istantaneo e terrificante.
L’abitacolo piombò nel buio. Il cruscotto si spense per un’istante, poi i display si riaccesero restituendo agli occhi, ormai abituati al buio, un accecante mosaico distorto di pixel bianchi e rossi, poi di nuovo l’oscurità.
Il volante, che Di Lauri stava ormai impugnando saldamente, si bloccò per un attimo, poi tornò ad avere gioco girando, però, inefficace su un piantone inerte.
Il sistema Aegis era morto.
L’impulso HPM aveva saturato i sensori radar e LiDAR con interferenze elettromagnetiche, sovraccaricando di tensione i sensibilissimi microprocessori di ultima generazione.
Il computer centrale era stato bloccato in uno stato di errore irreversibile.
Non c’era più assistenza, peggio, non c’era più alcun controllo.
Matteo schiacciò il pedale del freno con forza, ma le ganasce non risposero efficacemente, reagendo alla pressione in modo incoerente.
La macchina si trovava a metà della curva, lanciata a tutta velocità, in pieno aquaplaning su un manto stradale coperto di detriti e invaso da un fiume d’acqua.
Il suo sistema di guida autonoma di quarto livello aveva appena smesso di funzionare, né uomo né macchina potevano più nulla.
Il veicolo sterzò bruscamente, per pura inerzia, seguendo la traiettoria imposta prima del collasso elettronico.
Le gomme posteriori persero trazione sulle pozze d’acqua, la coda sbandò violentemente verso lo strapiombo.
Di Lauri tentò una controsterzata disperata, ma senza l’assistenza elettronica e la ripartizione di coppia il volante era inutilizzabile.
L’auto andò in testa-coda.
Con un rumore più intenso e minaccioso del fragore del tuono, uno stridore metallico acuto e prolungato, la fiancata destra si schiantò contro il muro di contenimento in pietra della strada Regina.
L’impatto fu devastante. La forza centrifuga schiacciò il guidatore alla cintura di sicurezza che resse il colpo, gli airbag, comandati da un sistema ormai impazzito, si attivarono in ritardo.
La Mercedes nera non si fermò. Non rallentò. La sua sagoma scura superò i rottami senza lasciare tracce.
Silenziosamente si dissolse nell’oscurità cancellata da un muro di pioggia, lasciando dietro di sé un fumo denso, l’odore acre del metallo sfregiato e della gomma strappata.
L’auto di Matteo non si arrestò al primo impatto. La velocità e l’angolo di collisione la proiettarono verso il muro di contenimento della carreggiata.
Il veicolo impazzito sradicò il fragile guardrail metallico che proteggeva lo strapiombo.
Per un attimo si librò nel vuoto.
Poi la caduta verso il nero abisso del lago.
Episodi 1 e 2 Sulle sponde del Lago - La genesi di un’amicizia
Episodio 3 - I grandi della Terra
Episodi 5 e 6 - L’incontro - I cieli di Turner
Episodio 10 - Chi controlla chi?



