Episodi 1 e 2 Sulle sponde del Lago - La genesi di un’amicizia
Episodio 3 - I grandi della Terra
Episodio 4 - L’ affabulatore
Episodio 5 - L’incontro
Como, 15 settembre.
«Mi sembra di non conoscerla.»
Dellandito rimase colpito, non si aspettava che Varga lo notasse e men che meno gli rivolgesse la parola.
Adrian appoggiò con cura il bicchiere che teneva tra le mani allineandolo al bordo di marmo della finestra affacciata sul parco, un angolo appartato della sala da cui Dellandito aveva assistito al convegno.
Dissimulando lo stupore l’avvocato rispose con prontezza: «Mi stupirei del contrario.»
«Allora mi aiuti a colmare questa lacuna. Avrà sentito il mio intervento, quindi sa già chi sono: Adrian Varga, mentre lei è?»
Nel dirlo tese la mano, ma Matteo Di Lauri comparve all’improvviso, intercettando il gesto e stringendo quella di Dellandito.
«Avvocato, la cercavo. Ho urgenza di parlarle. Dottor Varga, mi permetta: le presento l’avvocato Dellandito.»
Varga socchiuse gli occhi. «Bene! E ora che conosco il suo nome, vorrei sapere anche il motivo della sua presenza.»
«Questioni di sicurezza, e, a dire il vero, piuttosto urgenti», tagliò corto Di Lauri.
Dellandito accennò un sorriso all’amico, non avendo, però, alcuna intenzione di sfuggire alla curiosità di Varga.
«Dottor Di Lauri, la raggiungo subito. Prima, però, permetta che mi complimenti con l’oratore: un vero affabulatore. È riuscito ad appassionare tutti a un tema spinoso come l’intelligenza artificiale, che, se ho capito bene, sarà il faro del nostro futuro.»
Varga scosse il capo. «L’IA non è un faro, né una gabbia. È un passaggio inevitabile. L’uomo ha inventato il fuoco, le macchine, internet. Ogni volta qualcuno ha gridato alla catastrofe. Ma il progresso non chiede permesso. Si impone.»
Dellandito incrociò le braccia, lo sguardo fisso. «E se il progresso portasse con sé nuove forme di ingiustizia? Algoritmi che decidono chi avrà credito, chi potrà curarsi, chi sarà ascoltato? Non è un rischio che possiamo sottovalutare».
Varga lo fissò, immobile. «Ogni sistema contiene errori. La differenza è che gli errori umani sono caotici, imprevedibili, quelli delle macchine, invece, sono tracciabili, correggibili. Io preferisco l’imperfezione di un codice alla cecità di un capriccio umano.»
«Ma un codice lo scrive un uomo», ribatté Dellandito, «e quell’uomo porta dentro i suoi pregiudizi, le sue paure. Non c’è neutralità assoluta.»
Varga lasciò cadere una pausa lunga, teatrale. «Vero. Ma c’è il controllo. Si possono stabilire standard, filtri, regole. Un giorno, avvocato, sarà l’IA a garantire più equità di quanto non facciano i tribunali.»
Dellandito sentì un brivido corrergli lungo la schiena, una parte di lui ammirava la visione glaciale e coerente di quell’uomo. Un’altra parte, però, vedeva già i contorni di un futuro in cui la giustizia non sarebbe stata più umana.
«Le sue parole sono affascinanti,» disse l’avvocato, la voce ferma ma lo sguardo vigile, «eppure… mi inquietano. Lei parla dell’IA come fosse già un’entità morale superiore, non un prodotto imperfetto degli uomini.»
Varga socchiuse gli occhi, un lampo freddo nello sguardo. «Io non credo nelle entità morali. Credo nei sistemi. E i sistemi si possono ottimizzare.»
Un silenzio tagliente calò tra loro. Dellandito inclinò appena il capo, poi, come se ogni sillaba avesse un peso, chiese: «Ottimizzati per chi, Varga? Per l’umanità, o per chi i codici li scrive?»
Per un attimo i due restarono immobili, a pochi passi l’uno dall’altro. Il brusio alle loro spalle sembrava lontanissimo.
Poi Varga sorrise appena, un sorriso che non arrivò agli occhi. Si voltò di lato, rompendo la tensione con lentezza studiata. «La storia non ricorda chi resiste al cambiamento, avvocato. Ricorda solo chi lo guida.»
Con passo calmo, tornò verso il centro della sala. Dellandito rimase immobile, mentre quella frase riecheggiava sospesa nell’aria come una lama che minaccia di cadere da un momento all’altro.
«Tu sei pazzo!», tuonò Di Lauri, «ti lascio solo cinque minuti e vai a sfottere il gallo più grosso del pollaio!»
«Visione o dominio?» Disse l’Avvocato facendo il verso a Varga. «Ma hai sentito come parla, sembra un sacerdote invasato, è affascinante come un abisso».
«Lascia perdere, abbiamo problemi più grossi ora, Cho Jin-hwan è morto».
Episodio 6 - I cieli di Turner
Como, 15 settembre.
La camera 54 si affacciava sul lago tinto di rosa da un crepuscolo che a Cho ricordava Turner. Le tende, appena socchiuse, lasciavano filtrare strisce di luce arancione che disegnavano sul tappeto geometrie temporanee e variabili.
Cho Jin-hwan camminava avanti e indietro, le scarpe facevano un suono sordo sul parquet di noce, il bicchiere di whisky sebbene fosse già mezzo vuoto non era riuscito ad attenuare la sua tensione.
Non era tornato in camera per riposarsi, era letteralmente fuggito dalla sala riunioni per trovare un attimo di silenzio e concentrazione prima della decisione che avrebbe pesato non solo sul destino della sua carriera, ma avviato l’umanità su un percorso inesplorato dal quale dubitava potesse uscirne indenne.
Un progetto—spiegava la stampa che amava esprimersi in slogan—che avrebbe unificato reti, dispositivi, dati, creato un singolo nodo di comando per coinvolgere milioni di vite.
Si sedette, e bevve un sorso. Il bicchiere tremò, poi fu la volta della stanza attorno a lui.
Un dolore sottile e imprevisto gli graffiò il petto.
«È la stanchezza», mormorò cercando di rassicurarsi.
Inspirò, espirò e constatò che il dolore non diminuiva.
La stanza si fece più piccola. Il respiro divenne corto, il volto si contrasse, la bocca si aprì e si chiuse cercando frammenti di aria che non bastavano a riempire i polmoni. Portò una mano al cuore come per afferrare qualcosa che stava scivolando via.
Il bicchiere cadde e il whisky si rovesciò, il rumore del cristallo che si frantumava gli sembrò lontano, stranamente ovattato.
Cho piegò la testa in avanti, e per un secondo la vista si offuscò, poi tornò a vedere il lago, le luci, la sagoma indistinta di un motoscafo, forse un Riva. Ebbe il tempo di pensare che era tutto molto bello, poi il buio.
Quando ai cancelli dell’Hotel arrivò un’ambulanza a sirene spiegate preceduta da un’auto-medica il concierge chiese chi avesse dato l’allarme. La risposta fu chiara:
«l’S.O.S. è partito dalla nuova centrale operativa, ci viene indicato solo il luogo della chiamata, il tipo di emergenza e il nome del paziente»
«E chi sarebbe?»
L’operatore sanitario consultò il suo tablet: «il Sig. Cho Jin-hwan», pronunciò con un accento cinese che al concierge parve fuori luogo.
«Verifico subito se il Sig. Cho Jin-hwan è nostro ospite… sì, stanza 54 vi faccio accompagnare».
Un valletto dell’Hotel bussò più volte alla porta e, autorizzato dal concierge, ormai preoccupato dopo aver verificato che la tessera della camera aveva registrato l’ingresso dell’ospite ma non la sua uscita, aprì la porta della suite.
Il suo grido strozzato dissipò il silenzio della stanza. Il copriletto di seta trascinato a terra, il bicchiere in mille pezzi, la sedia rovesciata. Il corpo di Cho era lì, immobile, il volto rivolto verso il soffitto.
Nessuna ferita, nessun segno di colluttazione. “Arresto cardiaco improvviso,” avrebbe scritto il referto più tardi, con quella freddezza burocratica che mette un punto definitivo dove restano domande.
A migliaia di chilometri di distanza, in una stanza senza finestre, il ronzio dei server cullava l’addetto ai monitor come le fusa di un gatto.
Uno schermo dopo l’altro a creare un mosaico che riempiva un’intera parete, grafici e curve, che salivano e scendevano come onde, si agitavano convulsi. Nessuna tastiera.
Il sistema non aveva bisogno di comandi fisici, era stato progettato per muoversi in autonomia, per imparare il senso delle cose e intervenire quando fosse necessario.
«Sarà sufficiente», mormorò una voce lontana.
Su un monitor, una piccola finestra segnava un aggiornamento discreto, silenzioso, schedulato come un normale controllo di routine. Nessuno avrebbe alzato un sopracciglio per quel tipo di segnale.



