“Algoritmo controllo - Imitation of consciousness” - Episodio 8
di Tommaso Landi
Episodi 1 e 2 Sulle sponde del Lago - La genesi di un’amicizia
Episodio 3 - I grandi della Terra
Episodio 4 - L’ affabulatore
Episodi 5 e 6 - L’incontro - I cieli di Turner
Episodio 7 - La genesi
Episodio 8 - Il dubbio
Seoul, 10 giugno
Alla fine di una lunga giornata a Seoul, sotto una pioggia fine che appannava i vetri, il Ministro dell’economia con delega alla Scienza e dell’ICT, Cho Jin-hwan, chiuse il dossier con un gesto secco.
Dietro la calma del suo volto si nascondevano anni di esperienza che una attenta lettura del suo curriculum avrebbe resi evidenti: due lauree negli Stati Uniti, un lungo periodo come ricercatore in machine learning, poi il ritorno in Corea per costruire laboratori pubblici in grado di competere con i giganti privati. Aveva fama di uomo risoluto e onesto, ma chi lo conosceva davvero sapeva che la sua fermezza era il risultato di bilanciamenti continui tra solidi principi, ambizioni e ragion di stato.
«Helios?», domandò la sua consigliera, porgendogli uno dei fogli che aveva fatto arrivare tramite canali fidati «Quel progetto la preoccupa ancora?»
«Ci offrono il pacchetto completo. Economie di scala, zero rischio operativo per noi», disse il ministro scuotendo la testa dubbioso.
«La questione, però, non è legata solo al rischio operativo. È in gioco la sovranità del Paese. Se lasciamo che gli algoritmi decisivi che influenzeranno il comportamento delle nostre reti siano progettati, creati e aggiornati fuori dalla nostra giurisdizione, non stiamo più decidendo. Siamo sotto contratto.»
Due anni prima, quando gli interessi di Helios cominciarono a muoversi verso l’Asia, Cho sapeva che la posta in gioco sarebbe stata altissima, non solo per il Governo della Corea del Sud, ma per ogni singolo cittadino.
Sul tavolo dello studio c’era il suo telefono privato, vi giocherellò indeciso se chiamare un vecchio amico. Prima di cercare il numero in rubrica fece scorrere la galleria delle foto, tempo prima aveva scansionato e archiviato una vecchia immagine sbiadita di due ragazzi seduti attorno al tavolino di legno di un piccolo locale nel cuore di Boston, vicino a Cambridge, attorno luci calde e un arredamento che mescolava legno e mattoni a vista. Aveva voglia di riguardare quello scatto.
Cho ricordava ancora che la musica di sottofondo era un jazz leggero, suonato abbastanza basso da permettere di chiacchierare.
Per due giovani stranieri, quello era il posto ideale: economico, accogliente, pieno di coetanei e con un’energia vivace che mescolava cultura americana e spirito cosmopolita.
Sul margine destro della foto una scritta a penna: “Per le volte in cui avremo bisogno di una mano.”
La firma in fondo alla frase era di Dellandito.
Il ragazzo che aveva autografato quella foto oggi era un avvocato brillante, ambiguo quanto basta per non essere del tutto decifrabile, uomo di legge e valori saldi, ma che sapeva piegarsi alle esigenze, se la vita fosse stata una partita di scacchi, di lui si sarebbe detto che muoveva i pezzi al momento giusto.
Per Cho era anche un amico che più di vent’anni prima lo aveva salvato quando tutto sembrava andare a rotoli.
La memoria lo riportò a Boston, a un inverno di neve e riunioni notturne. Cho, giovane professionista al suo primo incarico importante, era stato travolto da un caso di proprietà intellettuale: un progetto sperimentale di visore artificiale che qualcuno, senza averne diritto, aveva tentato di reclamare come proprio. La carriera di Cho era stata sull’orlo del baratro. Dellandito, allora studente universitario italiano fuori sede pieno di audacia, vedendo il giovane coreano in difficoltà gli aveva suggerito una strategia legale che aveva tolto il terreno da sotto i piedi agli avversari.
Cho si era offerto di pagarlo, ma lui aveva rifiutato i compensi previsti, tra i due era nato un legame che sapeva di debito e di amicizia, d’allora in poi aveva sempre seguito a distanza la carriera dell’amico constatando che, negli anni, Dellandito era diventato l’uomo che quel giovane studente lasciava intravedere.
Cho cercò il suo numero in rubrica.
Non l’aveva usato da tempo. Una parte di lui voleva chiamarlo per scoprire se l’amicizia potesse spalancare porte che i canali ufficiali tardavano ad aprire, ma un’altra, più pratica, ricordava la natura del gioco e il rischio a cui avrebbe esposto l’inconsapevole amico.
Quella sera, a prendere la decisione fu l’uomo più che il ministro e a guidarlo più l’egoismo che l’amicizia.
Cho si fece accompagnare alla piccola sala riunioni del ministero.
La porta si aprì su una stanza essenziale: geometrie pulite, superfici sgombre da ogni fronzolo.
L’ambiente non era semplicemente isolato, era una gabbia di Faraday. Le pareti erano rivestite di spessi pannelli anecoici bianchi che assorbivano ogni sussurro restituendo un silenzio quasi doloroso.
La porta alle sue spalle si chiuse sigillando, con il peso delle spesse lamine di rame rivestite di isolmix, guarnizioni di neoprene ad alta densità che garantivano l’assenza di fessure, lo spazio non era bello né curato, ma funzionale.
Al centro, un tavolo sobrio e due postazioni, mentre lungo una parete erano allineati armadi chiusi a chiave.
Sul pannello di controllo, sopra la porta, c’erano indicatori simili a quelli di una sala di registrazione.
La stanza era un ambiente dove la sicurezza era pratica quotidiana, Cho si sedette pesantemente su una delle due sedie d’acciaio e legno attorno al tavolo, e attese che il segnale di ok si accendesse sopra la porta, poi compose il numero.
La voce all’altro capo era identica a quella che ricordava: calma, calda, con una tinta d’ironia che faceva pensare a qualcuno che, nella vita, aveva visto molte cose.
«Cho Jin-hwan», disse l’avvocato, «che piacere sentirti quanto tempo è passato? Direi più di un anno. Tutto bene, dove sei?»
Il Coreano parlava un italiano perfetto, con un’inflessione che pareva più tesa e ruvida di quanto Dellandito ricordasse.
«Bene, grazie. Sono a Seoul, ma vorrei tanto incontrarti, mi piacerebbe parlare faccia a faccia con te, l’ultima volta ne è uscito un ottimo spunto, ora però ho un problema anche più grave della demografia.»
«Sai che mi fa sempre piacere rivederti, ma incontrarsi non è cosa semplice, né scontata, personalmente non ho in programma viaggi in Corea del Sud, sempre che tu non voglia invitarmi, come dire, beh, non c’è un modo carino per dirlo, a spese del Governo?»
«Possibilità remota», Cho nonostante la tensione sorrise ricordando la passione dell’amico per gli inviti ufficiali, «non è escluso, però, che venga io da te, potrei approfittare dell’invito al forum di Cernobbio, se decidessi di partire ci sarebbe la possibilità di ritagliarci qualche ora per parlarci?»
«Como durante quell’evento non è il luogo più ovvio per cercare riservatezza, ma la tua proposta è allettante, se ritieni di poter venire, io ci sarò sicuramente»
«È quello che ho in mente di fare. Per ora non confermo nulla; prima di prendere decisioni definitive devo pensarci bene e valutarne l’opportunità.»
«Fallo, ma per tentarti ti ricordo quanto è brava Anna in cucina, se vieni sarai nostro ospite a cena, e poi potrei passare a prenderti al forum in barca con il mio nuovo motoscafo, ti prego solo di informarmi appena decidi.»
«Lo farò. Ti ringrazio per la disponibilità e naturalmente ti chiedo discrezione.»
«Conta su di me, non vedo l’ora di rivederti.»



