L’inverno demografico alla prova del futuro economico italiano
di Francesco M. Renne
Delle diverse transizioni economiche, già sotto gli occhi di tutti, se ne è parlato in abbondanza: transizione ambientale, transizione digitale (verso l’economia dei dati e della robotica) e transizione energetica (sia in termini di “indipendenza” che di sostenibilità delle fonti), sono diventati termini di piena attualità (pur se non sempre ancora compiutamente condivisi).
Della transizione geoeconomica (la crisi della globalizzazione, il ripensamento delle catene di supply-chain e delle interdipendenze finanziarie internazionali), data dalle incertezze geopolitiche e dal riaffiorare localmente di scenari di guerra, se ne è iniziato a parlare più recentemente, non foss’altro che per la “guerra dei dazi” (vedasi precedente articolo su questa testata e l’articolo di Simona Baseggio di ieri) recentemente esplosa.
Ma la mutazione economica più rilevante, silenziosamente in corso da qualche decennio, eppure (molto) poco spiegata (e ancor meno discussa), e che invero comporta scenari futuri di grande discontinuità, con grande impatto sui cicli economici e sulla sostenibilità dei sistemi di welfare (e quindi fiscali) oggi in essere, appare ai più nascosta (nelle fredde statistiche economiche) e, soprattutto, scomoda (nel trovare il coraggio di affrontarla). Alcuni la celano dietro la rassicurante (e foriera di opportunità di investimento, peraltro) locuzione di “silver economy”, altri – sommessamente, ma in maniera più radicale, come chi qui scrive – la stigmatizzano come “longevity risk scenario”.
L’invecchiamento della popolazione media, nelle economie più avanzate, associato al contestuale progressivo calo delle nascite e, come in Italia, anche alla crescente emigrazione di molti giovani alla fine del ciclo di studi universitari e al basso livello di incidenza di profili “skillati” sul totale dei flussi migratori in entrata, determina – ove il trend non venga corretto, ammesso peraltro sia possibile correggerlo – un cambiamento della struttura economica che ha impatti sulla propensione futura di consumi e investimenti, sul fabbisogno della spesa sociosanitaria e pensionistica e, non meno importante, sul rapporto fra reddito prodotto e rendite patrimoniali, mettendo a rischio le entrate tributarie prospettiche. E costringe a interrogarci sul futuro. Come cittadini, per il proprio benessere finanziario; come risparmiatori, per la tenuta dei conti pubblici e del sistema finanziario/previdenziale; come Stato, per la sostenibilità del welfare pubblico e, nondimeno, per l’ipoteca che tutto ciò pone alla sostenibilità (o al suo ripensamento radicale) dell’attuale sistema fiscale.
Alcuni numeri per meglio comprendere la situazione.
Secondo gli ultimi dati ISTAT, nel 2024 la speranza media di vita alla nascita è pari a 83,4 anni, quasi 5 mesi in più rispetto al 2023, mentre ci sono state 370mila nascite (con una media di 1,18 figli per donna viene superato il minimo di 1,19 del 1995, anno nel quale sono nati 526mila bambini) e la dimensione media delle famiglie scende agli attuali 2,2 componenti (20 anni fa era costituita da 2,6 componenti).
A ciò va aggiunto un boom delle emigrazioni verso l’estero, pari complessivamente a 191mila (+20,5 per cento sul 2023), delle quali 156mila riguardano cittadini italiani che espatriano (+36,5 per cento), sia neolaureati in cerca di lavoro qualificato che, in minore misura, pensionati, mentre le acquisizioni della cittadinanza italiana concesse a cittadini stranieri residenti in Italia sono state 217mila (214mila nel 2023).
Dal che discende che il grafico della popolazione suddiviso per età e per genere – cd. “piramide della popolazione”, in quanto idealmente i nuovi nati sopravanzavano di numero i cittadini sopravvissuti alle due guerre mondiali – evidenzia ormai una forma ad “anfora” (dalla base molto più stretta, che si allarga fino ai 15 anni; poi una parte sostanzialmente verticale, fino ai 30 anni circa; la parte centrale più ampia, prima in allargamento fino circa ai 48/50 anni e poi verticale fin quasi ai 60 anni; infine, la cima che, a partire da lì, si restringe). Talché, appare difficile che il trend possa autocorreggersi in tempi ristretti, dato che, anche ammettendo l’impossibile – e cioè che da subito il trend delle nascite riprenda a ritmi doppi di quello attuale – l’effetto sull’ingresso nel mondo del lavoro avverrebbe fra circa 20/25 anni. Si aggiunga che, per inciso, mentre nella fascia dai 48/50 anni in su vi è una maggioranza di genere femminile, nelle fasce più giovani (soprattutto fra i 15 e i 30 anni) si registra una maggioranza di genere maschile.
Ciò, come già accennato, nel medio periodo avrà impatto sul futuro economico del nostro Paese. Intanto, perché a una popolazione mediamente sempre meno giovane si associano mutazioni della propensione ai consumi, in quantità e in tipologia, nonché un maggior fabbisogno di servizi socioassistenziali e sanitari. Poi, perché la popolazione lavorativamente attiva sarà in diminuzione, con effetti sul gettito tributario e previdenziale da lavoro (dipendente, professionale e da impresa) e sul bilancio pubblico (che avrà, in proiezione, maggiori spese a parità di welfare e minori entrate), oltre che sul mercato di riferimento per moltissime attività economiche oggi esistenti (i.e. negozi di prossimità, servizi professionali, cambiamenti nell’offerta di prodotti/servizi da parte delle imprese). Oltre ad effetti sulla valorizzazione delle stesse (meno imprese concorrenti come possibili acquirenti e problematiche di passaggio generazionale conseguenti) e sulla continuità dei dipendenti nel tempo.
Tenendo altresì conto, sempre secondo i dati ISTAT, che il 23,1 per cento della popolazione si trova già nel 2024 a rischio di povertà o esclusione sociale (era il 22,8 per cento nel 2023), con picco intorno al 39 per cento nelle regioni del sud e delle isole. E che, allo stesso tempo, nell’ultima rilevazione periodica di marzo, il clima di fiducia dei consumatori cala da 98,8 a 95,0 e l’indicatore composito del clima di fiducia delle imprese scende da 94,7 a 93,3.
Emerge quindi la scomoda verità della conseguente necessità di rivedere, in un prossimo futuro, la finanziabilità degli ammortizzatori sociali e dei sistemi pensionistici (pubblici e privati). Così che, volendo mantenere (magari riducendo sprechi e migliorandone le prestazioni) l’attuale livello di welfare, occorrerà (ri)pensare un nuovo sistema fiscale. Magari meno esposto ai consumi (che cambieranno) e al lavoro (che dovrà essere maggiormente incentivato), e maggiormente mirato su rendite (immobiliari e finanziarie) e successioni (partendo dalla considerazione che, a livello sistemico, sia meglio una “buona” imposta sulle successioni – che colpisce la fase di trasferimento dei beni, magari assorbendo le imposte sui trasferimenti oggi esistenti – che dannose imposte patrimoniali periodiche, che incidono sul valore dei medesimi beni, spesso illiquidi, a parità di detentore), traendo così anche effetti di mitigazione dei comportamenti evasivi. Con l’avvertenza, auspicabile, di ridurre però nel suo complesso l’incidenza della pressione tributaria sul PIL.
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Foto di Manuel Alvarez da Pixabay