Alle porte di una “guerra dei dazi”: motivazioni, critiche, impatti
di Francesco M. Renne
Ci sono state discussioni, non sempre “tecnicamente” corrette, sulla fine della “globalizzazione”, sul fenomeno del “reshoring” delle imprese, sulle nuove strategie di gestione delle “supply chain” di materie prime e semilavorati strategici, incolpando la “selvaggia iper-globalizzazione” per la (scarsa) “produttività” italiana (ed europea). Quasi che la “deindustrializzazione” non si fosse potuta “gestire” dai Paesi europei “per colpa” delle frontiere (economiche) aperte e non per “poca visione” strategica delle proprie politiche industriali. Proprio di recente, il neoeletto presidente Trump ha introdotto negli USA nuove tariffe doganali del 25 per cento sulle importazioni da Canada e Messico, del 10%, addizionale alle tariffe già esistenti, per quelle dalla Cina, e si attendono decisioni per quelle dall’Europa. Il tutto, innescando reazioni uguali e contrarie, in termini di dazi, per ora solo dei Paesi colpiti. Insomma, il passo dal “non capite un dazio” al “te lo do anch’io il dazio” è stato fin troppo breve; e pericoloso, per i suoi effetti.
Il tentativo americano si basa su un doppio presupposto, dato dal compensare gli effetti negativi sui prezzi all’importazione delle merci “neo-daziate” (i.e. rischio di flame inflattivi e conseguenti minori consumi) con (a) gli effetti positivi dati dal contemporaneo annuncio di introduzione di incentivi agli investimenti sulle imprese ad alta tecnologia, dell’uscita dall’accordo sulla neonata “minimum global tax” internazionale e di introduzione di tagli alle imposte federali sui redditi, da un lato, e (b) gli effetti positivi dati dalla prospettiva di maggiori insediamenti di nuove imprese, per effetto della maggior convenienza fiscale e per evitare i dazi stessi, nonché di maggior afflusso di capitali esteri verso il dollaro, attirati dalla crescita economica sostenuta e dal differenziale dei tassi di interesse, sufficiente a far crescere il cambio rispetto alle valute estere, così da assorbire i maggiori costi delle merci importate. In soldoni, una scommessa sul mantenimento della condizione di “egemonia finanziaria” americana.
In generale, aumentare le tariffe doganali, però, colpisce non solo i “prodotti finiti”, quindi i consumatori del proprio Paese per i maggiori prezzi al consumo dei beni finiti importati, ma anche materie prime, componenti, semilavorati e lavorazioni esterne, aumentando i costi di produzione per le imprese. Farlo, peraltro, in un Paese, gli USA, dove le fasi di produzione (e l’insediamento di fabbriche effettuato apposta per quelle lavorazioni) sono svolte in Paesi limitrofi – i dati dicono, ad esempio, che proviene dagli USA stessi circa il 50 per cento della componentistica dei veicoli costruiti in Canada, il 35 per cento di quelli costruiti in Messico – rischia di generare effetti controproducenti anche per l’economia interna.
Secondo la teoria della specializzazione delle produzioni, la scelta di “make or buy” legata a fasi a basso valore aggiunto andrebbe esternalizzata, favorendo la terziarizzazione, anche in Paesi esteri, potendosi così concentrare su fasi/prodotti a maggior valore aggiunto, favorendo la crescita della produttività e dei salari. Al contrario, i dazi disincentivano tali esternalizzazioni nell’area domestica e tendono a distruggere nel lungo periodo la produttività e i salari, con il trilemma fra (i) accettare minori guadagni, derivanti dai costi delle fasi a basso valore aggiunto, (ii) accettare maggiori costi, derivanti dai maggiori dazi, ovvero (iii) rischiare minori volumi di vendite, derivanti dalle maggiorazioni di prezzo dovute al recupero dei maggiori costi delle due ipotesi precedenti. Oltre al minor gettito (e conseguente maggior deficit) per le finanze pubbliche.
Una “guerra dei dazi” generalizzata, insomma, rischia di generare una contrazione dei volumi di interscambio globale e conseguenti minori flussi finanziari, mettendo in difficoltà, per prime, le economie dimensionalmente più deboli e quelle più esposte a deficit/debito pubblico che reggono tale peso grazie all’afflusso di capitali per i volumi di esportazioni. Gli scambi import/export degli USA vedono al primo posto l’Unione Europea, poi il Messico, quindi il Canada e infine la Cina; tutte con surplus di esportazioni verso il Paese nordamericano, che implicitamente vorrebbe maggiori esportazioni verso la nostra zona economica, ma con l’aggravante che, se il differenziale Dollaro/Euro aumentasse (come detto, necessario per mantenere il loro potere d’acquisto sull’estero e compensare l’effetto dei dazi), le importazioni americane in Europa – a parità di ogni altro fattore – costerebbero di più.
Quindi, le imprese, oggi, cosa dovrebbero fare? In estrema sintesi e nel presupposto che la “guerra dei dazi” si sviluppi per un periodo non breve, (i) per le imprese esportatrici verso gli USA (o per la quota di esportazioni/lavorazioni verso quel mercato), occorrerà valutare l’opzione di insediamento (greenfield o acquisizione) in loco; (ii) per le imprese esportatrici poco esposte verso gli USA (o per la quota di export non-USA), occorrerà valutare i rischi di fornitura a clientela estera a sua volta esposta verso quel Paese e cercare di rafforzare i legami commerciali con le altre aree geografiche mondiali; (iii) per le imprese sovraesposte con importazioni dagli Usa, occorrerà tener conto delle previsioni della curva dei cambi nel tempo e ragionare sulle politiche di approvvigionamento (fissazione prezzi a medio-lungo termine o politiche di diversificazione); infine, (iv) sia per le prime che per tutte le altre, meno direttamente coinvolte e/o per quelle attività strettamente legate al commercio e ai servizi locali, occorrerà tenere monitorate le previsioni dei costi energetici e delle materie prime, i cui prezzi sono per lo più fissati in dollari.