Dazi e illusioni: quando la politica ignora l’economia (e la storia)
di Simona Baseggio
Negli ultimi mesi si è tornati a parlare molto di dazi: sui media, nei dossier dei governi europei e persino nei salotti televisivi. Il motivo è noto: le recenti mosse degli Stati Uniti, che hanno rilanciato una politica commerciale aggressiva verso l’Europa, lasciano intendere un ritorno al protezionismo. Scelte rapide, forse poco meditate, che sembrano ignorare o sottovalutare le lezioni del passato. E allora forse vale la pena fare un passo indietro e rimettere in fila i concetti base. Perché parlare di dazi oggi non significa solo evocare un’imposta: significa mettere mano a un meccanismo che ha conseguenze economiche, politiche e perfino sociali di lungo periodo. Conseguenze tutt’altro che semplici da gestire.
Ma cos’è un dazio? Al netto dei tecnicismi, un dazio è una tassa sull’importazione. Chi porta nel proprio Paese un bene prodotto all’estero, paga un sovrapprezzo allo Stato.
Fin qui, nulla di nuovo. Ma il punto è: perché uno Stato decide di introdurre o alzare un dazio?
Le motivazioni possono essere molteplici. In primo luogo, la finalità di proteggere il tessuto produttivo nazionale, scoraggiando la concorrenza estera: l’imposizione di un tributo sull’importazione incide sul prezzo finale dei beni provenienti dall’estero, conferendo un vantaggio competitivo alle imprese domestiche, a parità di tipologia e qualità di prodotto. In secondo luogo, non va trascurata la funzione fiscale del dazio, quale strumento diretto di incremento del gettito statale. Ma accanto a queste due direttrici “classiche”, si afferma sempre più spesso un terzo obiettivo: esercitare una pressione indiretta sulle imprese straniere, al fine di incentivarle a delocalizzare la propria produzione all’interno del Paese che impone il dazio.
Sembra proprio questa la strategia oggi perseguita dagli Stati Uniti, che alla leva doganale affiancano l’argomentazione di un possibile alleggerimento della fiscalità interna, reso possibile proprio grazie alle maggiori entrate derivanti dai dazi. In questo schema, le imprese che dovessero decidere di insediarsi negli USA potrebbero beneficiare di una doppia convenienza: una minore imposizione fiscale e un conseguente abbattimento del costo dei fattori produttivi, come l’energia, che risulterebbe notevolmente più accessibile rispetto ai livelli europei, anche in ragione del trattamento agevolato previsto per i produttori interni.
Spesso si indirizzano i dazi verso beni strategici, dichiarando l’obiettivo di rilanciare l’industria domestica e rafforzare la sicurezza nazionale. Ma dietro questo approccio si cela una visione ben precisa, di tipo mercantilista, che guarda con sospetto all’importazione e premia l’export. Una visione che, però, fatica a reggere nel contesto odierno.
La realtà dei fatti, è ben più complicata.
Non di rado accade che gli esiti concreti di tali misure divergano profondamente dagli obiettivi inizialmente perseguiti dal Paese che le ha adottate. Una volta introdotti, i dazi generano effetti a catena difficilmente contenibili, tanto sul piano interno quanto su quello internazionale.
Una delle prime ricadute è di tipo inflattivo. Oggi gran parte delle filiere produttive si sviluppa in ambito globale: beni e componenti attraversano più confini prima di diventare prodotti finiti. L’introduzione di un dazio su materie prime, semilavorati o beni intermedi, comporta inevitabilmente un aumento dei costi lungo tutta la catena del valore. Non è realistico pensare di sostituire rapidamente una fornitura estera con un’alternativa nazionale, soprattutto nei settori altamente specializzati o tecnologici. Il risultato? Prezzi più alti per le imprese e, in ultima analisi, per i consumatori.
A ciò si aggiunge il cosiddetto effetto domino internazionale. Le misure protezionistiche difficilmente restano isolate: è frequente che i Paesi colpiti reagiscano con misure speculari, innescando un circolo vizioso di ritorsioni commerciali. Il dazio, da strumento difensivo, si trasforma così in miccia di tensioni diplomatiche ed economiche, con il rischio concreto di compromettere l’intero equilibrio del commercio multilaterale.
Infine, non può essere trascurato il tema della perdita di efficienza economica. In molti casi, per un Paese è più vantaggioso importare un bene a basso costo, trasformarlo internamente e rivenderlo ad alto valore aggiunto. Il dazio altera questa logica, rendendo meno conveniente l’importazione e quindi l’intero processo produttivo. Invece di stimolare l’autonomia economica, può determinare una riduzione della competitività complessiva, ostacolando l’innovazione e irrigidendo il sistema industriale.
La storia economica ha già mostrato – più di una volta – che i dazi possono produrre effetti contrari a quelli desiderati. L’esempio forse più noto resta quello dello Smoot-Hawley Act del 1930, introdotto dall’amministrazione Hoover: gli Stati Uniti alzarono i dazi su migliaia di beni per proteggere l’economia interna in piena crisi. In risposta ci furono ritorsioni da parte di molti altri Paesi, crollo del commercio internazionale e aggravamento della Grande Depressione.
Eppure, sembra che quella lezione sia stata dimenticata. Anche la recente guerra commerciale tra USA e Cina iniziata nel marzo 2018 ha confermato quanto una politica di dazi possa rivelarsi un’arma a doppio taglio: da un lato ha colpito le esportazioni cinesi, dall’altro ha alzato i prezzi per le imprese e i consumatori americani, generando incertezza e distorsioni nelle catene di fornitura globali.
Perché il mondo, nel frattempo, è cambiato. Oggi le economie sono profondamente interconnesse: produrre un bene “nazionale” spesso significa assemblare componenti provenienti da dieci Paesi diversi. Introdurre un dazio può voler dire interrompere questo equilibrio e rendere meno competitivo il proprio stesso sistema industriale.
Va detto: i dazi non sono vietati. Esistono regole, fissate soprattutto in ambito WTO (World Trade Organization), che ne disciplinano l’introduzione. Un Paese può imporre un dazio solo se motivato, notificato e compatibile con gli accordi internazionali.
Ci sono quindi eccezioni ammesse: le più famose quelle per contrastare pratiche di dumping o per motivi ambientali o di sicurezza nazionale.
Quello del dumping, ovvero la pratica con cui un Paese esporta beni a un prezzo inferiore al costo di produzione, spesso grazie a sussidi pubblici interni, è un caso emblematico. Si tratta, in sostanza, di una forma di concorrenza sleale, con abbassamento dei prezzi delle merci esportate, che può danneggiare gravemente le imprese del Paese importatore. In questi casi, l’introduzione di dazi anti-dumping rappresenta una risposta legittima e proporzionata per riequilibrare il mercato e difendere il sistema produttivo nazionale.
Un ulteriore esempio è rappresentato dal Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) introdotto dall’Unione Europea: si tratta di una misura di adeguamento alle frontiere che applica un “dazio ambientale” alle importazioni provenienti da Paesi con standard emissivi meno stringenti rispetto a quelli europei. L’obiettivo è duplice: da un lato evitare fenomeni di carbon leakage, ossia la delocalizzazione della produzione verso Stati con normative ambientali più permissive; dall’altro, garantire condizioni di concorrenza eque per le imprese europee che operano nel rispetto delle regole comunitarie in materia di sostenibilità.
Ma anche quando sono giustificati, i dazi restano strumenti delicati. Perché possono innescare reazioni a catena, provocare tensioni diplomatiche e avere ripercussioni su settori che nulla hanno a che vedere con la misura adottata.
Per concludere, ciò che colpisce, in questa nuova fase di confronto transatlantico, è la rapidità con cui si torna a invocare i dazi come soluzione a problemi complessi. Come se bastasse una tassa sull’importazione per rimettere in piedi un sistema produttivo, correggere squilibri commerciali o tutelare l’occupazione.
La realtà è più sfumata. E soprattutto, la storia ci insegna che politiche doganali aggressive, in un mondo globalizzato, rischiano di fare più danni che altro. Ecco perché – prima ancora di decidere quali dazi imporre – bisognerebbe chiedersi se siamo pronti a gestirne le conseguenze. E soprattutto, se non stiamo commettendo gli stessi errori di quasi un secolo fa.