L’Editoriale - Caso Meta e dintorni: perché per il privato non si realizza alcun reddito diverso
di Luigi Lovecchio
La recente vicenda giudiziaria promossa dalla procura di Milano contro Meta, avente ad oggetto la contestazione di un’operazione di scambio, rilevante ai fini Iva, tra assenso all’uso di dati personali degli utenti e prestazione di servizi digitali, – si vedano su Blast gli interventi di Sirri e Carinci – sollecita alcune riflessioni anche dal lato dell’utente finale.
L’interesse alla questione è peraltro accentuato dal fatto che la stessa è potenzialmente riscontrabile in una pluralità indeterminata di situazioni. Ne derivano aspetti per certi versi inquietanti, tanto più che, nella generalità delle ipotesi, il coinvolgimento dell’utente finale avviene con modalità del tutto inconsapevoli. Si pensi ad esempio a qualsiasi servizio di assistenza gratuito – quali la risposta alle domande più frequenti in un determinato ambito – fornito on-line a fronte del consenso alla profilazione prestato dal fruitore.
Dal lato del consumatore finale, è stata in particolare prospettata la possibilità di configurare un reddito diverso, sub specie di redditi derivanti da fare, non fare, permettere, ex articolo 67, lett. l), del Tuir. Si tratta di una fattispecie per sua natura residuale che presenta contorni piuttosto indefiniti nella sua declinazione pratica. Per approcciare la soluzione del problema interpretativo evocato, è utile prendere le mosse da alcune considerazioni di carattere sistematico.
Al riguardo, va in primo luogo esclusa la natura di norma di chiusura della previsione in esame, alla stregua di quanto accadeva con l’articolo 76, per quanto riguarda le plusvalenze speculative, e con l’articolo 80, per ciò che concerne i redditi diversi, del Dpr 597/1973. In forza di tali disposizioni, infatti, era possibile attrarre a imposizione qualsivoglia cessione effettuata con non meglio precisati intenti speculativi nonché i redditi diversi – anche questi non meglio definiti – da quelli contemplati nei precedenti articoli del su citato Dpr. Sennonché è ampiamente noto che la filosofia di fondo dell’attuale Tuir è profondamente diversa dall’assetto precedente, in quanto si è ritenuto maggiormente rispondente al criterio della certezza del diritto – mai aspettativa è andata così delusa quanto questa – passare da una legislazione per concetti a una legislazione per fattispecie o tassonomica. Ne è derivato che l’applicazione delle imposte sui redditi, nell’attuale sistema, segue criteri, per certi versi, tassativi: non si tassa qualsiasi arricchimento ma unicamente le ipotesi sussumibili in una specifica fattispecie astratta.
Sebbene in un sistema esasperatamente casistico – come è diventato il vigente ordinamento tributario –, in cui si perdono di vista i principi, sia quasi velleitario estrarre criteri di orientamento, si condivide inoltre l’opinione secondo cui il modello di riferimento di massima dell’imposizione reddituale è quello del reddito prodotto piuttosto che il reddito entrata. Ciò comporta che, in linea di principio e salve ovviamente contrarie ed espresse previsioni di legge, l’arricchimento senza causa non rientra nel campo di operatività dell’imposizione personale mentre, al contrario, il presupposto sotteso al modello del Tuir è la tassazione del reddito riveniente dall’attività svolta dal soggetto passivo oppure dallo sfruttamento di asset patrimoniali (quali, ad esempio, gli immobili o gli intangibles).
Coerente con tale impostazione appare l’ulteriore notazione secondo cui, ove si guardi alla previsione di cui all’articolo 67, lett. l), del Tuir, all’interno della quale è collocata la fattispecie in disamina, l’attenzione è puntata sull’attività e non sull’operazione isolata. Detto in altri termini, la consulenza isolata come pure la singola cessione di beni – salvo che non si tratti di operazione di entità significativa, come ad esempio la costruzione e la vendita di un fabbricato, nel qual caso può ravvisarsi l’esercizio d’impresa abituale – non determinano l’insorgenza del reddito da lavoro non esercitato abitualmente, come si ricava dal chiaro tenore letterale adottato dal legislatore. Ove così non fosse, si ritornerebbe di fatto, tra l’altro, ad una previsione di chiusura analoga a quelle del prima citato Dpr 597/1973, che, come detto, si ritiene siano state abbandonate dalla riforma che ha dato origine al Tuir.
Ricostruito così il quadro di riferimento dell’imposizione reddituale, funzionale a individuare il perimetro di applicazione dei redditi diversi – che in quanto categoria per definizione residuale richiede per l’appunto l’identificazione di taluni principi guida, utili a disegnarne i contorni –, si può ora prendere in esame la fattispecie dei redditi da obbligazioni di fare, non fare e permettere.
In proposito, si osserva in primo luogo come l’assunzione di un’obbligazione presupponga, per sua natura, un comportamento consapevole del soggetto passivo, assunto nell’ambito di un’attività e non certo quale espressione di una condotta isolata. All’opposto, nella vicenda di cui si discute, si ravvisa un atteggiamento meramente passivo del privato che, come esattamente rilevato da Carinci, non sa neppure quali dati siano oggetto di profilazione, configurabile, per di più, come “fatto” singolo, posto in essere al di fuori di una condotta teleologicamente orientata al raggiungimento di uno scopo. Detto in altri termini, se mai possa essere ravvisata un’utilità ricevuta dal privato, essa appare accostabile, a tutto voler concedere, alla concezione di reddito entrata, non certo di reddito prodotto.
Se si guarda alla prassi dell’Agenzia delle Entrate, si osserva come la tipologia reddituale in oggetto sia stata ad esempio applicata ai soggetti che promuovono l’utilizzo di portali informatici presso conoscenti (“porta un amico”), così valorizzando per l’appunto il comportamento attivo del contribuente (risposta a interpello n. 338/2021). Viceversa, la tesi volta a ricondurre alla medesima disposizione l’istituto della transazione in quanto tale è stata bocciata dalla Cassazione, nell’ordinanza n. 20316/2021, in cui la Corte ha statuito che occorre sempre indagare la natura dei diritti oggetto del negozio transattivo e da lì prendere le mosse per individuare la tipologia reddituale appropriata.
In sintesi, dunque, si è dell’avviso che, nella vicenda del consenso alla profilazione dei dati personali, non si possa configurare un reddito diverso, sub specie di redditi derivanti dall’assunzione degli obblighi di fare, non fare e permettere, atteso che: i) non è dato ravvisare alcuna obbligazione negoziale assunta sulla base di una condotta attiva del contribuente; ii) neppure è ipotizzabile uno scambio di utilità realizzato nell’ambito di “un’attività” del soggetto interessato, intesa in contrapposizione con l’operazione isolata; iii) ove mai si potesse configurare un arricchimento del contribuente, si sarebbe in presenza di un arricchimento senza causa, visto dal lato del beneficiario.
Tutto questo, in disparte dall’oggettiva estrema difficoltà per una persona di medie competenze tecniche di misurare il reddito in natura conseguito nella cessione dei dati personali, secondo i criteri di cui all’articolo 9 del Tuir. In definitiva, deve ritenersi che il caso Meta non possa avere risvolti a cascata “di massa”.