L'Editoriale - Il valore digitale alla prova delle categorie IVA: nuovi scenari o l’esigenza di ripensare tutto?
di Andrea Carinci
La sfida del digitale costituisce una sfida affascinante quanto imprescindibile per i giuristi, chiamati oggi a ricercare un ordine ad un fenomeno in costante trasformazione.
Sicuramente il problema che appare più attuale, ma anche allo stato più grezzo, è quello della creazione di nuove forme e manifestazioni di valore. Le criptovalute ed in generale le cripto attività, tra cui i Non fungible token, fino ad arrivare ai Big data – ossia alle informazioni personali di ciascun utente, suscettibili di essere utilizzate per modelli di customizzazione dei consumatori – si offrono tutti come espressione e manifestazione di una nuova ricchezza.
Indubbiamente, sembra possibile concepire questa nuova ricchezza digitale come nuova ricchezza/incremento di patrimonio ovvero, in alternativa, come diversa e maggiore capacità di soddisfazione di propri bisogni e interessi nei rapporti interindividuali (specialmente quelli che si realizzano nell’ambito delle relazioni “di mercato”). Quindi, come vicenda idealmente espressiva di una capacità contributiva.
Sennonché, ad oggi manca una precisa consapevolezza al riguardo. Così, ad esempio, con riguardo ai Big data, l’approccio fino ad ora tenuto anche a livello internazionale appare fortemente rinunciatario. Pur nella diffusa consapevolezza che le nuove imprese digitali trovano, nei Big data, la principale espressione della loro forza economica, in tutti i più recenti progetti di tassazione delle multinazionali digitali manca la valorizzazione di questo peculiare indice.
In questo contesto, si muovono le recenti indagini della Procura di Milano nei confronti di Meta Platforms Ireland Limited - società controllante Facebook, Instagram, WhatsApp e Messenger - e X Corp. (ex Twitter), che hanno portato al centro del dibattito un tema tanto attuale quanto controverso: la possibilità di assoggettare ad IVA i servizi digitali offerti “gratuitamente” agli utenti, in cambio della cessione e dell’utilizzo dei loro dati personali.
La questione centrale della contestazione attiene alla determinazione della base imponibile IVA, che, secondo l’impostazione dell’Agenzia, coinciderebbe con il valore economico dei dati personali acquisiti da Meta e X Corp. al momento della registrazione degli utenti italiani sulle rispettive piattaforme, nel periodo 2015-2021. Il consenso prestato dagli utenti all’utilizzo dei propri dati personali, in cambio dell’accesso ai social network, non configurerebbe una prestazione gratuita, il che ne avrebbe escluso la rilevanza ai fini dell’Imposta sul Valore Aggiunto, bensì un rapporto sinallagmatico assimilabile ad una permuta, con conseguente rilevanza fiscale dell’operazione. È plausibile ritenere che la contestazione dei verificatori si fondi sul più recente orientamento dell’Agenzia delle Entrate, secondo cui la mera assenza di un corrispettivo monetario non sarebbe, ex se, sufficiente a escludere la rilevanza ai fini IVA di un’operazione. In particolare, nella risposta all’interpello n. 31/2023, l’Amministrazione finanziaria ha chiarito che, “pur in mancanza di un corrispettivo in denaro, ai sensi dell’art. 3, comma 3, del D.P.R. n. 633 del 1972” determinate prestazioni non possono considerarsi rese a titolo gratuito in quanto riconducibili nello “schema contrattuale a titolo oneroso della permuta, disciplinato agli effetti dell’IVA dall’art. 11 del medesimo D.P.R [n. 633 del 1972]”.
Seguendo questa impostazione, la ricostruzione della pretesa si fonderebbe sul presupposto che, in realtà, tra utenti e colossi digitali del network si realizzi un vero e proprio scambio di servizi, caratterizzato da obbligazioni reciproche. Gli utenti cederebbero beni immateriali, ovvero i propri dati personali, che consentono la profilazione dei gusti e delle abitudini di consumo, qualificabili, ai fini IVA, come prestazioni di servizi. In cambio, gli operatori digitali concederebbero l’accesso alle proprie piattaforme digitali, instaurando un rapporto di reciproca controprestazione. Trattandosi di permuta, entrambe le prestazioni devono essere considerate separatamente ai fini dell’imposizione fiscale, anche se, nel caso specifico, l’unica operazione rilevante ai fini IVA sarebbe quella posta in essere dagli operatori digitali nei confronti degli utenti, in quanto quest’ultimi difetterebbero (rectius non sarebbe verificabile) del requisito soggettivo necessario per essere qualificati come soggetti passivi d’imposta.
L’elemento di novità di tale paradigma riguarda indubbiamente la determinazione della base imponibile su cui calcolare l’imposta, poiché i dati personali vengono “ceduti” dagli utenti senza alcuna valorizzazione diretta al momento della registrazione sulle piattaforme. Per superare l’impasse gli inquirenti hanno adottato un approccio indiretto, prendendo a riferimento i proventi realizzati attraverso la vendita di spazi pubblicitari e strategie di marketing sulla profilazione degli utenti.
Si tratta, va detto, di una soluzione che non convince. Innanzitutto, i servizi che gli utenti cedono non sono certo i dati: gli utenti non hanno la minima idea di quali dati vengono presi, per cui non si può proprio ricostruire una qualche volontà di cederli. Quindi, semmai, il servizio che essi offrono è un mero pati, ossia il tollerare che siano prelevati i dati personali di interesse. Sennonché, già in questi termini, l’inquadramento nella permuta di cui all’articolo 1552 c.c. appare difficoltoso, posto che qui si definisce permuta “il reciproco trasferimento della proprietà di cose, o di altri diritti”.
In verità è difficile riscontrare alcuna volontà negoziale negli utenti. Sicché diventa parimenti difficile intravedere la conclusione di un qualsivoglia contratto.
Va poi ricordata l’interpretazione fornita dal Comitato IVA espressa nel Working paper n. 958 del 30 ottobre 2018, riguardante i “servizi di tecnologia dell’informazione” (cd. IT services), dove si afferma che l’acquisizione di dati personali da parte di un operatore economico non configura, di per sé, una prestazione a titolo oneroso ai fini IVA; ciò, anche laddove tali dati abbiano un valore economico. La rilevanza fiscale di un’operazione presuppone, invero, un nesso diretto tra il servizio reso e il corrispettivo ricevuto, condizione che nel caso di specie non risulta soddisfatta. Nel medesimo senso è peraltro orientata la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (cfr. sentenze C-432/15, C-246/08, C-16/93), che ha più volte ribadito la necessità di un rapporto sinallagmatico effettivo affinché una transazione possa essere soggetta a IVA.
Insomma, la questione è certamente aperta e non pare che l’approccio fino ad ora seguito appaia in concreto meritevole. Il fatto, banalmente, è che il dato normativo è assolutamente disallineato alla realtà, che non può essere forzata all’interno di regole e categorie pensate per un assetto dei rapporti completamente analogico. Il digitale impone, infatti, una nuova mentalità ma anche e soprattutto regole nuove.