La risposta a interpello n. 59/2025, in materia di incasso giuridico derivante dalla rinuncia ai dividendi, è la prova che in Italia il rapporto tributario è ancora lontano da uno standard di normalità, nonostante le buone intenzioni degli attori istituzionali.
La vicenda descritta nella risposta è ampiamente nota agli addetti ai lavori e riguarda, in particolare, la rinuncia a dividendi già deliberati da una società di capitali. Malgrado le modifiche apportate con l’introduzione del comma 4 bis all’articolo 88 del Tuir e l’ultimo arresto della Cassazione, di cui alla sentenza n. 16595/2023, l’Agenzia non abbandona i suoi precedenti di prassi e conferma la configurazione, nel caso di specie, dell’incasso giuridico dei dividendi.
Il tema, si ricorderà, è stato posto in origine – decenni fa - dal Secit per rimediare a situazioni in cui, a fronte della deduzione di un costo, non si verifica mai l’assoggettamento a imposizione di un componente positivo di reddito. Il caso classico era rappresentato dal trattamento di fine mandato degli amministratori che, se risultante da atto avente data certa anteriore all’inizio del rapporto, dà luogo a accantonamenti deducibili per competenza in ciascun esercizio. Ecco quindi che, qualora al termine del rapporto, l’amministratore – socio rinunciava a percepire l’indennità in esame, la rinuncia non dava luogo ad una sopravvenienza attiva e si realizzavano così le condizioni per un salto d’imposta. È stato così letteralmente creato il concetto di “incasso giuridico” del credito che si traduce, nella sostanza, nel qualificare la rinuncia come un atto di disposizione del credito medesimo che ne presuppone l’avvenuta acquisizione nell’ambito della sfera giuridica del beneficiario.
È del tutto evidente, però, la chiara ed inammissibile forzatura che questa costruzione implica: un reddito tassato per cassa, per definizione, non può essere assoggettato a imposizione se non è percepito. Detto in altri termini, la rinuncia ad incassare si pone in antitesi, sotto il profilo concettuale, con la percezione di una somma: l’accostamento tra le due vicende risulta evidentemente contro natura, in qualsiasi ordinamento normale.
Come spesso accade – si pensi al caso emblematico degli accertamenti a società di capitale a ristretta base -, un espediente logico nato per contrastare condotte certamente disapprovate dal sistema è poi sfuggito di mano ed ha dato origine ad una applicazione pressochè indiscriminata, anche a casistiche in cui il problema del salto d’imposta semplicemente è inesistente, come per l’appunto proprio il caso affrontato con la su citata risposta a interpello (i dividendi sono ovviamente indeducibili dal reddito d’impresa).
La questione sembrava risolta con l’introduzione del predetto comma 4 bis all’articolo 88 del Tuir. In virtù di tale disposizione, la rinuncia al credito da parte del socio costituisce sopravvenienza attiva per la parte che eccede il valore fiscale del credito. Allo scopo, il socio, all’atto della rinuncia, deve comunicare alla società partecipata il valore fiscale del proprio credito. In mancanza, si presume un valore pari a zero, con l’effetto che l’intero valore del credito rinunciato genera una sopravvenienza attiva in capo alla società.
Si era pertanto ritenuto che la modifica appena illustrata avesse risolto in radice tutti i problemi di salto d’imposta. Al di là di vicende di circolazione del credito, oggetto di svalutazione da parte del cedente, che pure vengono in questo modo sistemate, tornando al caso del TFM, si è rilevato che un credito tassato per cassa ha valore fiscale pari a zero, proprio perché se non è incassato è fiscalmente irrilevante. Ne deriva che il socio che rinuncia a un proprio credito a titolo, ad esempio, di compenso professionale, dividendo o TFM, comunicherà – o potrebbe anche non comunicare nulla – alla società il valore zero e di conseguenza la società assoggetterà a tassazione come sopravvenienza attiva l’intero valore nominale del credito. Non vi è neppure un problema di incremento del costo fiscale della partecipazione, atteso che la medesima innovazione legislativa ha precisato, agli articoli 94 e 101, che in caso di rinuncia l’incremento suddetto è corrispondente al valore fiscale del credito rinunciato, e cioè zero nel caso esemplificato.
La prima doccia fredda è arrivata con la risoluzione n. 124/E/2017 dell’Agenzia delle Entrate, proprio in materia di rinuncia al TFM, con cui si è affermato che la regola sopra illustrata vale nei soli riguardi dei soggetti titolari di reddito d’impresa, non anche nei riguardi delle persone fisiche. Secondo tale apodittica interpretazione, dunque, il valore fiscale del credito di una persona fisica è sempre pari, per definizione, al suo valore nominale. Di conseguenza, pur dopo le suddette variazioni normative, nell’eventualità appena enunciata si realizzano comunque i presupposti per l’incasso giuridico del credito.
A mettere le cose a posto è intervenuta la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16595/2023, in cui, dopo aver correttamente ricordato la ratio fondante della teoria dell’incasso giuridico – evitare i salti d’imposta -, si rilevava che la questione dovesse ritenersi superata dall’entrata in vigore del comma 4 bis del ridetto articolo 88 del Tuir. Per effetto di tale previsione, un reddito tassato per cassa ha valore fiscale pari a zero, di conseguenza, la rinuncia ad esso determina solo una sopravvenienza attiva in capo alla società partecipata.
Si giunge così alla menzionata risposta a interpello n. 59/2025 che invece si riporta per intero alla risoluzione n. 124/2017, ignorando del tutto la pronuncia dei giudici di vertice.
Ora, in disparte da osservazioni speciose, in quanto affette da fiscalismo della peggior specie – se fosse come opinato dalle Entrate, vi sarebbe una comoda modalità di “credit washing”, consistente nella cessione di un credito svalutato, a prezzo pari al valore di bilancio, ad una persona fisica che poi vi rinuncia, con evidente salto d’imposta -, ciò che colpisce è l’insistenza nell’affermare forme di tassazione percepite come artificiose – che cosa ha guadagnato il socio che ha rinunciato al dividendo? - e quindi inaccettabili, che allontanano ulteriormente il comune cittadino dalla vicenda fiscale.
Non ci sarebbe voluto molto per giustificare una diversa conclusione e, in fondo, è anche con le piccole cose che si possono mettere le basi per un nuovo rapporto Fisco - contribuente.