Ristretta base societaria: il socio può contestare il reddito se la società non impugna
di Andrea Gaeta e Maurizio Nadalutti
La presunzione di distribuzione degli utili extracontabili nelle società a ristretta base partecipativa costituisce uno degli strumenti più frequentemente utilizzati dall’Amministrazione finanziaria in sede accertativa. Essa si fonda sulla supposizione (di per sé non priva di verosimiglianza, purché non si trasformi – come è progressivamente avvenuto – in un dogma) che, in presenza di un numero ristretto di soci, tra i quali sussistano legami di affinità o comunque di stretta collaborazione, gli utili non dichiarati dalla società siano distribuiti ai soci stessi.
Si tratta di una presunzione semplice, che la giurisprudenza ha di fatto “trasformato” in una presunzione legale relativa (non a caso si parla di presunzione giurisprudenziale, quale sorta di “terza via”, con dubbia coerenza con il principio di legalità). Infatti, come ripetutamente ribadito dalla Cassazione, la ristrettezza della base societaria dispensa l’Amministrazione da qualsiasi ulteriore riscontro circa l’effettiva ripartizione dell’utile ai (e tra i) soci, facendo gravare su di essi la prova contraria.
In questo contesto, la Suprema Corte, con la recente ordinanza n. 6001 del 6/3/2025, si è pronunciata sulla possibilità per il socio di far valere le proprie ragioni nel caso in cui l’accertamento indirizzato alla società non sia stato validamente impugnato (da quest’ultima).
È stato in particolare statuito che il socio può contestare nel merito il maggior reddito anche se il ricorso avverso l’accertamento emesso nei confronti della società è stato dichiarato inammissibile. Questo principio, che può essere traslato anche al caso in cui l’atto impositivo della società non sia stato impugnato, si pone agli antipodi di più datati arresti, come la Cass. n. 441/2013, secondo la quale l’accertamento che per qualsiasi ragione si è reso definitivo non è mai contestabile dal socio, nemmeno “incidentalmente”.
Il cambio di rotta si era registrato già in precedenza con la Cass. n. 17356/2020, relativa a un’ipotesi nella quale la società aveva rinunciato al ricorso in pendenza del giudizio, e con la Cass. n. 21356/2022, con la quale i giudici di legittimità avevano statuito che il socio che non abbia partecipato al processo della società è ammesso a contestare (anche) l’inesistenza del maggior utile “a monte”, e ciò anche se l’accertamento notificato alla società sia stato definitivamente confermato per ragioni di merito.
Poiché è pacifico che in questi casi non sussiste obbligo di litisconsorzio necessario (si veda ad esempio Cass. 4425/2025), e che pertanto al giudizio prende parte solo la società, al socio, nel corso del giudizio che lo riguarda personalmente, deve dunque essere sempre data la possibilità di contestare anche nel merito i maggiori redditi attribuiti all’ente.
Ad ogni modo, nonostante la pronuncia n. 6001/2025 della Suprema Corte debba senz’altro essere accolta con favore, occorre fare qualche riflessione più in generale sulla presunzione di distribuzione di utili ai soci nel caso di società a ristretta base partecipativa.
Come si è sopra fatto cenno, si tratta di una presunzione che non trova riscontro in alcuna disposizione normativa, ma che è stata “inventata” dalla giurisprudenza e che pone il socio nella quasi impossibilità di difendersi.
Infatti, la Cassazione ha affermato che il socio non può dimostrare, ad esempio, di non aver mutato il proprio tenore di vita nel tempo, ma soltanto che l’utile è stato accantonato o reinvestito. Una giurisprudenza più garantista (v., ad es., Cass. n. 29794/2021) consente al socio di dimostrare la propria estraneità alla gestione sociale, ad esempio dimostrando l’esistenza di insanabili dissidi con gli altri soci; tuttavia, ha specificato la recente Cass. n. 2288/2025, occorre comunque indicare la sorte degli utili. In altri termini, si chiede al socio – che, a questo punto, non si comprende più come possa dirsi “estraneo” alla società – di farsi delatore degli altri soci.
La realtà è che nella maggior parte dei casi il socio dovrebbe dimostrare di non aver ricevuto alcun reddito “in nero”, configurandosi così un onere della prova negativo (cd. probatio diabolica), che però è vietato dalla stessa giurisprudenza.
Per attenuare gli effetti di questa presunzione giurisprudenziale, va segnalata la volontà del legislatore – con la Legge Delega n. 111/2023 – di apporre un correttivo all’impostazione (giurisprudenziale) che si è formata, laddove si prevede di limitare la presunzione solo in presenza di maggiori componenti positivi di reddito o di componenti negativi inesistenti (e non di costi non deducibili), confermando la natura di reddito finanziario (ossia, di dividendo), con conseguente necessità di considerare distribuito al socio il reddito al netto delle imposte richieste alla società (cosa che negli avvisi di accertamento non accade). Purtroppo, almeno sino ad oggi, la delega è rimasta inattuata (anche se vi sarebbero validi argomenti per attribuirle in parte qua natura “interpretativa”).
Tuttavia ciò (ad oggi) non è sufficiente.
Il fatto che la compagine sociale risulti a ristretta base dovrebbe costituire un mero indizio che deve essere supportato da altri elementi per contestare la distribuzione al socio di utili non dichiarati. Ad esempio, l’Amministrazione finanziaria – che, lo si ricorda, è tenuta a provare in giudizio la fondatezza della pretesa impositiva ai sensi dell’articolo 7, comma 5-bis, Dlgs n. 546/1992 – facendo leva sulle proprie corpose banche dati, potrebbe dimostrare che la capacità di spesa del socio non è conforme con il reddito dichiarato o che le disponibilità finanziarie “trasparenti” del socio non vengono utilizzate per le esigenze della vita quotidiana, circostanze che fanno intendere la sussistenza di entrate “extra” non dichiarate.
D'altronde, in un sistema tributario in cui l'Amministrazione finanziaria è in grado di misurare quasi “al millimetro” il reddito del contribuente, le presunzioni legali non hanno più senso di esistere, tantomeno quelle di stampo giurisprudenziale (che sono, sostanzialmente, delle “presunzioni di legge senza legge”).