La riforma penale-tributaria e il braccio di ferro tra Cassazione civile e penale: over the top
di Alex Ingrassia
La riforma delle sanzioni, intervenuta con il Dlgs. 87/2024, sta diventando terreno di scontro tra Cassazione civile e penale: si potrebbe intravedere una resistenza del sistema tributario alle ingerenze penalistiche imposte dal legislatore dell’ultima riforma.
Due sono già i campi di battaglia: la rilevanza nel giudizio tributario dell’assoluzione penale perché il fatto non sussiste all’esito del dibattimento (articolo 21-bis Dlgs. 74/2000) e la definizione di crediti inesistenti (articolo 1, lett. g-quater, Dlgs. 74/2000).
Sul primo fronte si sono già espressi qui su Blast Andrea Gaeta e Lorenzo Romano, così come Andrea Carinci, commentando la recentissima sentenza n. 3800: la Cassazione civile ha sminuito il portato dell’innovativo articolo 21-bis Dlgs. 74/2000, limitandone gli effetti favorevoli al contribuente alle sole sanzioni, lasciando mano libera al giudice tributario sulla valutazione dell’eventuale evasione e (ri)aprendo, di conseguenza, la strada ad un contrasto di giudicati sul “medesimo fatto”.
Il secondo fronte sta destando (in questo periodo) meno scalpore, ma non è meno decisivo.
Qui si registra un braccio di ferro di lungo corso tra Cassazione civile e penale sulla nozione di inesistenza del credito compensato.
La radice del problema è presto detta: nemmeno dopo la presa di posizione del legislatore con il decreto sanzioni (Dlgs. 87/2024), che ha offerto definizioni trasversali – ma oggettivamente non particolarmente felici – di inesistenza e non spettanza del credito, collocate in sede penale (articolo 1, lett. g-quater e g-quinquies, Dlgs. 74/2000), sembra infatti arrestarsi il conflitto tra i due rami della Suprema Corte.
La nozione contesa è quella di inesistenza e, conseguentemente, quella di non spettanza del credito.
Si tratta di questione tutt’altro che da minuziosi eruditi, essendo il confine fondamentale – dai crediti ricerca e sviluppo ai diversi bonus pandemici, per fare due esempi – per le potenziali responsabilità dei contribuenti.
Guardando anche solo alla prospettiva penalistica, un credito inesistente comporta una pena detentiva da un anno e sei mesi a sei anni e non può essere estinto mediante pagamento del debito tributario; decisamente più mite la responsabilità correlata alla compensazione di un credito non spettante, con un compasso edittale che si muove dai sei mesi ai due anni di reclusione e, soprattutto, il commodus discessus della non punibilità, lucrata automaticamente con la soddisfazione delle pretese erariali prima dell’apertura del dibattimento penale.
Secondo la Cassazione civile (25018/24), la definizione di credito inesistente, introdotta ora nel Dlgs. 74/2000, non sposterebbe in alcun modo le conclusioni cui già erano pervenute le Sezioni unite – civili, ça va sans dire – n. 34419/23, nella vigenza dell’articolo 13 Dlgs. 471/1997, oggi modificato dalla stessa riforma delle sanzioni. La nozione di inesistenza avrebbe matrice normativa e abbraccerebbe non solo i casi di frode o di radicale mancanza naturalistica dei requisiti richiesti dalla normativa attributiva della tax expenditure, ma implicherebbe «anche la ricognizione positiva, con riguardo alle singole previsioni d'imposta, di quei requisiti – condizioni, termini e forme – normativamente imposti come elementi costitutivi dei singoli crediti d'imposta».
Per esemplificare: l’assenza del carattere di novità di un’attività di ricerca e sviluppo, realmente compiuta, potrebbe far conseguire un giudizio di inesistenza del credito.
Di diverso avviso la Cassazione penale (1757/25), che adotta, invece, una definizione prettamente naturalistica: «la nozione di ‘credito inesistente’ va ricollegata ad una dimensione anche secondo il linguaggio comune ‘non reale’ o ‘non vera’, ossia priva di elementi giustificativi fenomenicamente apprezzabili, se non anche con connotazioni di fraudolenza».
La scelta interpretativa non dovrebbe stupire, ove si consideri che in chiave penalistica il concetto di inesistenza è strettamente correlato ad un giudizio di realtà fenomenica: si pensi paradigmaticamente alla definizione di operazione inesistente come “non realmente effettuata” (articolo 1, Dlgs. 74/2000) e all’inesistenza dei costi nella dichiarazione infedele, da intendersi esclusivamente come costi mai effettivamente sostenuti, indipendentemente da ogni giudizio normativo di inerenza, competenza o deducibilità degli stessi (articolo 4, comma 1-bis).
Torniamo, allora, all’esempio, tenendo ferma la nuova prospettiva: l’assenza del carattere di novità di un’attività di ricerca e sviluppo realmente compiuta potrebbe far conseguire in sede penale al più un giudizio di non spettanza del credito.
Facciamo un passo oltre.
Il rapporto tra i due rami dell’ordinamento sembra avvilupparsi ulteriormente, ove si considerino sinergicamente i due terreni di scontro: che peso avrà in sede tributaria una sentenza di assoluzione all’esito del dibattimento, in cui si affermi che il credito sia esistente, per quanto eventualmente non spettante, sulla base di un’interpretazione dell’articolo 1 Dlgs. 74/2000 ripudiata dalla Cassazione civile?
Le questioni oggi contese, a ben vedere, nascondono la più ampia criticità del sistema e la sua domanda di fondo: possibile che la funzione sempre più riscossiva del diritto penale tributario, asservito più alla ragione fiscale che a scopi alti – o altri? – come la rieducazione, non possa dispiegare anche un impatto favorevole per il contribuente?
In altre parole: in un sistema a doppio binario sanzionatorio cumulativo, che richiede la close connection tra procedimenti per non porsi in contrasto con il divieto di bis in idem, è legittimo che l’accertamento tributario possa restare impermeabile alle maggiori garanzie offerte dal penale, come in punto di definizioni o di modalità di accertamento?