La grande capriola della Cassazione: la neutralità (ritrovata) Iva che salva la detrazione

di Simona Baseggio e Barbara Marini

Se il diritto tributario fosse una serie TV, l’ordinanza n. 31406 depositata il 2 dicembre 2025 sarebbe il colpo di scena del finale di stagione. Come ha già puntualmente riportato Andrea Gaeta su queste pagine, la Suprema Corte ha abbattuto un dogma che sembrava incrollabile, riconoscendo anche all’evasore totale il diritto di detrarre l’IVA sugli acquisti.

La notizia c’è ed è dirompente. Ma per capire davvero le motivazioni profonde di questa apertura, che spalanca le porte del paradiso (o almeno del purgatorio) a chi ha violato ogni regola formale, bisogna guardare all’architettura complessiva della decisione e a come la Corte ha ricomposto il puzzle della neutralità fiscale.

Il cuore della sentenza batte, infatti, al ritmo della Direttiva UE: la detrazione non è un premio per chi conserva bene le carte, ma un diritto sostanziale che scatta quando ci sono i requisiti “veri” (acquisto da soggetto passivo, debito d’imposta in capo al fornitore, inerenza all’attività).

Se questi ci sono, la forma (la fattura mancante) non può uccidere la sostanza.

Tuttavia, c’è un passaggio logico ulteriore, quasi una chiave di volta, che si trova nel principio di diritto enunciato dalla Corte. I giudici stabiliscono un nesso di consequenzialità diretta: poiché la ricostruzione induttiva dei ricavi in nero deve intendersi comprensiva dell’IVA (il cosiddetto “scorporo”), ne deriva, come conseguenza, che il soggetto passivo deve disporre del diritto di detrarre l’IVA a monte. È un’equazione a somma zero imposta dalla neutralità: se l’Erario presume che nell’incasso accertato ci sia l’IVA a debito, deve presumere (o meglio, permettere di provare) che nelle uscite ci sia l’IVA a credito.