La giurisprudenza deve aggiornare la presunzione sugli utili in “nero” delle società a ristretta base
di Andrea Gaeta
Tra gli strumenti più “insidiosi” che l’Amministrazione finanziaria utilizza in sede di accertamento vi è la presunzione secondo cui, nelle società a ristretta base partecipativa, eventuali utili extracontabili accertati in capo alla società risultino automaticamente distribuiti tra i soci, in proporzione alle loro quote di partecipazione.
Si tratta di una costruzione giurisprudenziale che, sebbene consolidata nel tempo, manca di un esplicito fondamento normativo. La legge, infatti, non prevede alcuna norma che autorizzi l’Amministrazione ad attribuire in via presuntiva un “reddito da partecipazione” in simili circostanze, né tanto meno stabilisce che spetti al contribuente dimostrare di non aver percepito alcunché.
Eppure, la Cassazione non solo ha affermato, in innumerevoli occasioni, che la ristrettezza della base sociale dispensa l’Amministrazione da qualsiasi altra prova, ma si è addirittura spinta ad individuare il contenuto della prova liberatoria del contribuente, tenuto a provare che l’utile è stato accantonato dalla società o da essa reinvestito, o, ancora, di essere totalmente estraneo alla gestione sociale (e, anche in questo caso, non senza dei “paletti”, che rendono la prova estremamente ardua; si veda l’articolo di A. Borgoglio del 4/3/2025).
Sempre la Cassazione, con una serie di pronunce emesse a partire dal 2019, ha stabilito a) che la presunzione si applica anche quando non vi è un “nero” da distribuire, ossia quando viene contestata alla società la deducibilità di costi effettivi (ciò in talune pronunce), e b) che al socio/persona fisica non spetta l’esclusione dalla base imponibile del 40 per cento prevista dall’articolo 47 del Tuir, poi innalzata al 49,72 per cento (D.M. 2/4/2008) e al 51,84 per cento (DM 26/5/2017), prima di essere sostituita (dal 2018) dalla ritenuta del 26 per cento. Afferma la Corte, infatti, che l’omessa tassazione degli utili da parte della società di capitali ne comporta l’assimilazione a una società di persone, con applicazione della trasparenza (si veda Cass. n. 2752/2024); non avvedendosi che, in realtà, se all’Ires si aggiunge l’Irpef in misura “piena”, la tassazione è anche più gravosa di quella prevista per tali società.
In sostanza, la Suprema Corte ha trasformato quella che dovrebbe essere una mera massima di esperienza (“nelle piccole società, spesso i soci si spartiscono il nero”, il cui valore indiziario non è superiore a quello di “non ci sono segni di effrazione, quindi la vittima conosceva l’assassino”) in un regime di tassazione con regole sue proprie.
Il problema, avvertito sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza di merito più “illuminata”, è che l’intera impalcatura si fonda su una presunzione semplice, non legale, che di per sé non potrebbe comportare alcuna inversione dell’onere della prova. È principio pacifico che tali presunzioni (semplici), se non assistite da una previsione normativa, possono sì giustificare l’accertamento, ma solo se sorrette da indizi gravi, precisi e concordanti; ma anche in quel caso l’onere di fornire tali elementi resta in capo all’Amministrazione, che non dovrebbe poter riporre affidamento su alcun automatismo.
A rendere ancor più evidente l’erroneità dell’impostazione giurisprudenziale, vi sono, oggi, due novità.
La prima è rappresentata dalla norma sull’onere della prova, il comma 5-bis dell’articolo 7 del Dlgs 546/1992, il quale impone che la prova della pretesa a) provenga sempre dall’Amministrazione finanziaria (con la sola eccezione dei giudizi di rimborso) e b) sia coerente con la normativa sostanziale, inciso che impone di interpretare le regole processuali alla luce del diritto sostanziale applicabile.
Nel caso della presunzione di distribuzione degli utili extracontabili, ciò significa che l’onere probatorio va valutato, innanzitutto, tenendo conto della disciplina che regola i redditi da capitale: questi ultimi sono imputabili al percettore solo se effettivamente percepiti (così l’articolo 45 del Tuir), e, applicando le norme sulle prove del codice civile, la relativa dimostrazione può derivare o da una presunzione legale (che qui pacificamente non vi è) o dai riscontri “estrinseci”, che l’Amministrazione può reperire senza eccessive difficoltà. Basterebbe, infatti, un esame degli incrementi patrimoniali del contribuente, analogo a quello che si effettuava ai tempi del redditometro, o, ancora, si potrebbero disporre delle indagini bancarie e riscontrare, ad esempio, inspiegabili e repentini bonifici in entrata, o versamenti di contanti.
Il richiamo alla coerenza con la normativa sostanziale vincola dunque il giudice a considerare non solo le regole generali sull’onere della prova e sulla “qualità” della prova che è chiamato a valutare, ma anche la natura del reddito che si presume percepito.
La stessa esigenza di coerenza con la normativa sostanziale ha ispirato l’articolo 17 della Legge delega n. 111/2023, in base al quale il Governo avrebbe dovuto limitare il ricorso alla presunzione ai soli casi di ricavi occulti e di costi inesistenti, “ferma restando la medesima natura di reddito finanziario” del provento dei soci. Ne sarebbe scaturita la necessità di scomputare le imposte accertate nei confronti della società (ciò che si distribuisce è un dividendo, non un reddito lordo), di riconoscere le esclusioni parziali dalla base imponibile (e, un domani, l’applicazione della ritenuta del 26 per cento in luogo delle aliquote progressive Irpef), nonché di valutare con maggiore rigore la prova della percezione del reddito, che non può che provenire dall’Amministrazione.
Se è vero che la previsione della delega, almeno sino ad oggi, non ha trovato attuazione, occorre d’altro canto riconoscere che il criterio direttivo è talmente specifico e “autosufficiente” da potersi considerare idoneo a disciplinare la fattispecie sostanziale; in ogni caso, il ripensamento dell’impostazione sin qui seguita dalla Corte di cassazione si impone alla luce della nuova disposizione dell’onere della prova, alla quale la stessa Corte ha recentemente attribuito portata sostanziale, così dimostrando di averne colto l’innovatività.
L’auspicio, quindi, è che si prenda finalmente atto che quella di distribuzione è una presunzione semplice e non legale, che deve essere utilizzata nel rispetto delle garanzie del contribuente e sempre in coerenza con la normativa “sostanziale” in tema di redditi di capitale.
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