SRL “ristretta”: il socio non può dimostrare al fisco ciò che non sa
di Alessandro Borgoglio
La presunzione – elaborata dalla giurisprudenza di legittimità – di distribuzione pro quota ai soci degli utili extracontabili accertati in capo alle società di capitali a ristretta compagine sociale si basa sul dato di comune esperienza per cui, se una cerchia molto limitata di persone gestisce un “qualcosa”, imprese incluse, può risultare verosimile che si creino delle dinamiche interpersonali molto simili alla “complicità”, perché nascono da quel legame gestorio, quell’interesse comune, che porta tutti i partecipanti a condividere ciò che riguarda la realtà amministrata (azienda); ciò vale tanto più laddove tra le persone (soci) esistano dei vincoli familiari.
Su questo assioma poggia dunque la presunzione di distribuzione in parola, che viene definita di matrice giurisprudenziale, in quanto “plasmata” nel corso del tempo dalle varie pronunce della Suprema Corte.
Chiaramente, viene ammessa la prova contraria per la quale, tuttavia, la stessa Cassazione in passato ha stabilito dei limiti molto stretti, consentendo al socio la sola possibilità di dimostrare che i maggiori utili accertati in capo alla società e a lui imputati pro quota, invero, non sono stati fatti oggetto di distribuzione, per essere stati, invece, accantonati dalla società ovvero da essa reinvestiti (cfr. Cassazione 5073/2021, 8915/2020, 32468/2018, 10898/2015, 20722/2010): al di fuori di queste due ipotesi non venivano considerate altre possibilità di prova contraria da parte del contribuente.
Più recentemente, si è formato un orientamento giurisprudenziale meno rigoroso, secondo il quale il socio può anche dimostrare, al fine di fornire la prova contraria alla presunzione di distribuzione in parola, la sua estraneità alla gestione aziendale (cfr. Cassazione 21790/2022, 15991/2024, 18764/2024).
In effetti, ben può succedere che in una piccola Srl composta da due o tre soci, per esempio, dopo svariati anni di attività, nascano delle divergenze interpersonali così forti da portare alla rottura dei rapporti, talvolta sino alla fuoriuscita di un socio: in questi contesti un socio potrebbe essere lasciato all’oscuro dell’attività “in nero” effettuata dagli altri (o dall’altro) e della relativa spartizione dell’utile occulto da essa ricavato.
È quanto accaduto nel caso oggetto della sentenza 2288/2025 della Cassazione, che fornisce l’occasione per comprendere la dimensione della prova richiesta al contribuente. In questa occasione, i rapporti con l’altro socio (si trattava di una Srl composta da due soli soci) si erano talmente deteriorati che il contribuente aveva lasciato ogni carica e l’anno successivo a quello di accertamento era completamente uscito dalla società, cedendo le quote al socio restante. Per dimostrare la sua estraneità alla gestione societaria e quindi alla percezione pro quota degli utili extracontabili che l’Ufficio aveva accertato in capo alla società, il contribuente/socio aveva invocato, appunto, la recisione di ogni rapporto con la società e l’altro socio e aveva esibito i suoi estratti conto personali, da cui non emergeva alcun accredito di somme potenzialmente ascrivibili a utili occulti.
Ciò, tuttavia, non è stato ritenuto sufficiente dagli Ermellini, che, dopo aver confermato il nuovo filone giurisprudenziale secondo cui il socio ha la possibilità di provare che egli non è stato destinatario della distribuzione, hanno però stabilito che il socio, avendo un potere di controllo sugli atti societari, deve provare a chi siano stati destinati gli utili occulti da lui non percepiti.
Nulla da eccepire sul fatto che l’esibizione di estratti conto, da cui non emergano somme ascrivibili alla distribuzione di utili occulti, non siano sufficienti a integrare la prova contraria richiesta al contribuente (chi mai si farebbe accreditare sul conto corrente degli utili “in nero”?), ma che a quest’ultimo sia imposto anche di dimostrare, per soddisfare detta prova, l’effettiva destinazione di quegli utili extracontabili che non ha percepito pare andare un po’ oltre misura: quando il contesto di riferimento è conflittuale, infatti, il socio può non avere contezza dell’attività svolta dall’altro socio, soprattutto se ciò lo porta addirittura a uscire dalla società; se i rapporti tra i soci sono conflittuali, infatti, è verosimile che l’uno tenderà a nascondere all’altro i profitti “non ufficiali” che sia riuscito a conseguire tramite la società.
L’esistenza di una conflittualità interna alla compagine sociale – a parere di chi scrive – comporta di per sé la recisione di quel vincolo di reciprocità/complicità che viene posto a base della presunzione di distribuzione in parola e, quindi, da sola, dovrebbe determinare l’inoperatività della stessa nei confronti di quel socio che dimostri – idoneamente – di essere stato messo in disparte rispetto alla gestione societaria, non potendogli essere altresì richiesto di fornire anche la prova della destinazione degli utili “in nero” che non ha neppure percepito.
Occorre segnalare che della dimensione delle vicende probatorie si è occupata anche quella parte della Legge Delega di Riforma Fiscale (Legge 111/2023) che – anche solo per il tentativo di porre qualche punto fermo sulla questione e di limitare l’operatività della presunzione in parola – è comunque fino ad oggi rimasta lettera morta, non avendo trovato una realizzazione nei decreti delegati sinora approvati.