La Corte di Cassazione torna sui limiti dell’efficacia del giudicato penale nel processo tributario
di Andrea Gaeta e Lorenzo Romano
Due recenti sentenze della Corte di Cassazione consentono di ritornare sulla questione, tuttora aperta, dei limiti di efficacia del giudicato penale nel processo tributario.
Con la prima sentenza (n. 9157/2025 depositata il 7/4/2025) la Corte ha ribadito quanto già statuito con la sentenza 3800/2025, ovvero che l’articolo 21-bis del Dlgs 74/2000 si applica esclusivamente alle sanzioni tributarie e non all’accertamento dell’imposta: la sentenza penale di assoluzione può essere considerata un elemento di prova nel processo tributario, ma non determina automaticamente l’annullamento della pretesa impositiva.
La società ricorrente aveva invocato l’applicazione dell’articolo 21-bis, sostenendo che la sentenza penale di assoluzione del legale rappresentante, pronunciata con la formula “il fatto non sussiste”, dovesse vincolare il giudizio tributario. Tuttavia, la Corte ha rilevato che la sentenza penale era stata emessa a seguito di giudizio abbreviato e ai sensi dell’articolo 530, comma 2, cod. proc. pen., con formula dubitativa che non rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 21-bis. Inoltre, la sentenza riguardava fatti diversi da quelli oggetto del giudizio tributario.
Essendo il collegio e il relatore i medesimi della già richiamata sentenza 3800/25, non desta meraviglia la perfetta sovrapponibilità delle motivazioni, e quindi l’identità dell’iter argomentativo seguito dalla decisione in esame, oltre che del principio di diritto ivi fissato.
Va sottolineata altresì la circostanza che le due sentenze (la 3800 e la 9157) si riferiscono a procedimenti discussi nella medesima giornata (ovvero il 15/01/2025), e quindi in data antecedente alla successiva ordinanza del 4 marzo 2025, n. 5714, commentata qui su Blast da Alex Ingrassia, con la quale è stato invocato l’intervento delle Sezioni Unite.
Nella stessa sentenza, inoltre, la Corte ha escluso che la limitazione dell’efficacia (a quanto pare, solo “sanzionatoria”) dell’assoluzione penale dibattimentale, e non anche alla sentenza di proscioglimento pronunciata dal GUP a seguito del giudizio abbreviato, possa determinare una disparità di trattamento rilevante ai sensi dell’articolo 3 della Costituzione.
Il diverso “contenuto probatorio” alla base delle due decisioni, afferma la Corte in un veloce passaggio, fa sì che non sia leso il principio di ragionevolezza. In effetti, il giudizio abbreviato è un procedimento che, anche nella sua versione “condizionata” all’assunzione di un mezzo di prova, avviene sulla base degli atti, e senza quella pienezza del contraddittorio tra accusa e difesa propria del dibattimento. La scelta del legislatore, insomma, sebbene abbia l’effetto indesiderato di disincentivare l’utilizzo dei riti premiali, non pare travalicare il limite della discrezionalità.
Nel caso affrontato dalla seconda sentenza di cui si diceva all’inizio (la n. 9192/25 depositata l’8/4/2025, ma discussa all’udienza dell’11/12/2024 innanzi ad altro collegio) il contribuente, che aveva impugnato due intimazioni di pagamento emesse a seguito di due sentenze sfavorevoli di primo grado, aveva contestato la sentenza della C.T.R. sostenendo tra l’altro che, poiché , in base all’articolo 21, secondo comma, del Dlgs n. 74 del 2000, le sanzioni amministrative tributarie non sarebbero esigibili fino alla conclusione del procedimento penale relativo agli stessi fatti, l’onere di provare l’esistenza di un provvedimento di archiviazione o di una sentenza irrevocabile di assoluzione o proscioglimento, “quale elemento costitutivo dell’eseguibilità della sanzione”, grava sull’Amministrazione.
La Corte di Cassazione ha respinto il motivo, chiarendo che la normativa applicabile è quella riformulata dal Dlgs n. 87 del 2024, entrato in vigore il 29 giugno 2024, il quale, attraverso il richiamo all’articolo 21-bis, ha previsto un rapporto non di alternatività tra le sanzioni, ma di cumulo “temperato”. Ai sensi dell’articolo 21-ter, infatti, “il giudice o l’autorità amministrativa, al momento della determinazione delle sanzioni di propria competenza e al fine di ridurne la relativa misura, tiene conto di quelle già irrogate con provvedimento o con sentenza assunti in via definitiva”.
Insomma, poiché il contribuente non ha dedotto l’esistenza di una condanna, non può chiedere la disapplicazione della sanzione amministrativa; ma, proprio perché non è stato condannato, non può nemmeno giovarsi del “temperamento” sanzionatorio dell’articolo 21-ter (il quale, rileviamo, è rimesso a parametri puramente discrezionali; ma siamo sicuri che anche su questo si riuscirà a “mettere una pezza”).
La Cassazione, così motivando, ha deciso di non decidere in merito alla questione sollevata dal contribuente, ovvero l’individuazione della Parte onerata di provare la definizione del procedimento (o del processo) penale. La risposta, a nostro avviso, non può essere che quella suggerita dal ricorrente: una volta irrogata la sanzione, solo l’Agenzia delle Entrate può avere interesse a rappresentare l’avveramento della “condizione sospensiva” (l’archiviazione o l’assoluzione) che consente di riprendere il procedimento di riscossione. Questa soluzione, inoltre, è l’unica coerente con la “nuova” regola sull’onere della prova che, come ha concordemente riconosciuto la dottrina, riguarda anche la componente sanzionatoria (si veda ad esempio il documento di ricerca della Fondazione Nazionale Commercialisti del 14/12/2022).
Dopo queste premesse, la Corte afferma che comunque la questione è irrilevante, perché le due intimazioni non erano ancora state affidate all’Agente della Riscossione e, pertanto, la riscossione poteva dirsi soltanto “minacciata”.
La Corte non lo dice espressamente, ma sembra potersi comprendere che l’impugnazione avrebbe dovuto riguardare l’avviso di presa in carico notificato ai sensi dell’articolo 29, comma 1, lettera b) del DL n. 78/2010. Sarebbe però davvero difficile conciliare questa conclusione con la sentenza delle Sezioni Unite n. 28709 del 16/12/2020, ove si è stabilito (tra l’altro) che il socio di società di persone che voglia lamentare la violazione del beneficium excussionis deve farlo impugnando la cartella (e oggi l’intimazione ad adempiere), e non il successivo atto esecutivo (il pignoramento). L’intimazione di pagamento post sentenza di primo grado ha la stessa funzione “impoesattiva” dell’avviso di accertamento, e non vi è alcuna ragione di posticipare la tutela.
Le sentenze in commento appaiono dunque un’ulteriore manifestazione del fastidio che la Cassazione sembra mostrare per le recenti scelte legislative; un braccio di ferro istituzionale (per citare ancora Alex Ingrassia) dal quale fanno le spese, in primis, i cittadini.