La Corte costituzionale cancella il tetto risarcitorio per le piccole imprese: una vittoria per i lavoratori o un nuovo rischio per chi fa impresa?
di Gabriele Silva
Il 21 luglio 2025 la Consulta ha depositato la sentenza 118, dichiarando incostituzionale il tetto massimo di sei mensilità per l’indennità risarcitoria nei licenziamenti illegittimi dei lavoratori impiegati in aziende con meno di 15 dipendenti.
Una svolta storica, che mette fine a una delle previsioni cardine del Jobs Act e apre a una nuova stagione nel diritto del lavoro.
Per una ricostruzione della pronuncia, si rimanda all’articolo pubblicato ieri di Claudio Garau. Qui, invece, si prova a riflettere sulle conseguenze sistemiche, in particolare per quella fascia di imprese spesso dimenticata: le micro e le piccole attività.
Quando un licenziamento è illegittimo
Il licenziamento è una delle forme legittime di risoluzione del rapporto di lavoro subordinato. Tuttavia, la legge impone precise condizioni perché tale recesso possa considerarsi valido.
Un licenziamento è ritenuto illegittimo nei seguenti casi:
mancanza della forma scritta;
motivazioni discriminatorie, ritorsive o illecite;
assenza di giusta causa o giustificato motivo (sia oggettivo che soggettivo);
vizi di motivazione o violazione della procedura.
In questi scenari, il datore di lavoro può essere condannato alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro oppure, più spesso, al pagamento di un’indennità economica.
Il tetto a sei mesi: la logica del Jobs Act
Il Jobs Act del 2015, nel tentativo di semplificare il quadro normativo e ridurre l’incertezza del contenzioso, aveva introdotto per le imprese con meno di 15 dipendenti un tetto massimo di sei mensilità per l’indennità risarcitoria.
La ratio era evidente: garantire una tutela certa al lavoratore, ma senza compromettere la sostenibilità economica di imprese di dimensioni ridotte.
Quel limite, spesso criticato, aveva però una funzione sistemica: delimitare i rischi patrimoniali a carico di soggetti imprenditoriali che, per struttura e risorse, non possono essere equiparati a una multinazionale o a una realtà con centinaia di dipendenti.
La Consulta interviene: più equità per i lavoratori
Con la sentenza 118/2025, la Corte costituzionale ha affermato l’incostituzionalità di quel tetto. Tra i motivi: sicuramente la violazione dei principi di personalizzazione, adeguatezza e congruità della tutela risarcitoria.
In altre parole, il danno subito da un lavoratore licenziato illegittimamente non può essere valutato in base alla dimensione dell’azienda che lo ha impiegato.
Si tratta, indubbiamente, di un principio giusto. È difficile sostenere che la dignità del lavoratore dipenda dalla forma giuridica o dalla scala dell’impresa presso cui lavora.
Da oggi, per le piccole imprese, l’indennità potrà essere determinata dal giudice in un range compreso tra 3 e 18 mensilità.
Per le aziende con più di 15 dipendenti resta invece il range tra 6 e 36 mensilità.
E ora chi protegge la piccola impresa?
Tuttavia, non si può ignorare che un equilibrio si sia spezzato.
Il lavoratore ottiene una tutela più ampia e giusta, ma l’imprenditore piccolo resta senza rete.
Chi gestisce un laboratorio artigiano, un panificio, uno studio tecnico o una piccola agenzia con 6 o 8 dipendenti, rischia ora di dover affrontare risarcimenti a doppia cifra.
Anche per vizi puramente formali o per motivazioni che, sebbene fondate, non superano il vaglio soggettivo del giudice.
Non è allarmismo: è una constatazione. L’eliminazione del tetto, se non accompagnata da un criterio uniforme di valutazione della legittimità del licenziamento e da strumenti di protezione o di accompagnamento, può produrre effetti distorsivi.
Il ruolo del giudice del lavoro
Con l’abolizione del tetto fisso, il giudice del lavoro diventa decisore non solo giuridico, ma anche economico.
Le sue sentenze, già delicate, assumono ora un potenziale di impatto molto più forte. Una condanna a 15 mensilità per una piccola impresa può significare chiusura, licenziamenti successivi, perdita di posti di lavoro.
Il confine tra giustizia sostanziale e insostenibilità economica si fa sottile.
E questo dovrebbe indurre tutti – magistratura, dottrina, politica – a interrogarsi su come garantire giustizia senza creare nuove iniquità.
Riflessione finale: giustizia sì, ma sostenibile
La sentenza 118/2025 rappresenta un avanzamento nella tutela dei lavoratori ma rischia anche di aprire una stagione di ulteriore instabilità per quel tessuto produttivo fatto di realtà micro, artigianali, familiari, che già oggi sopravvive tra margini ridotti, inflazione e carenza di liquidità.
Forse è tempo di chiedersi se l’equità possa davvero dirsi tale, quando ignora le condizioni reali di chi la deve garantire.
In un Paese in cui almeno 9 imprese su 10 hanno meno di 15 dipendenti, introdurre più giustizia per alcuni senza costruire tutele minime per altri rischia di creare un sistema più fragile.
E un sistema fragile è per sua natura instabile.