Dal fallimento del referendum alla sentenza n. 118: la Consulta infligge un altro duro colpo al Jobs Act
di Claudio Garau
Ciò che non è stato raggiunto con uno dei referendum sul lavoro di giugno è ora realtà grazie a una nuova sentenza della Corte costituzionale, la n. 118, depositata lunedì 21 luglio. Inserendosi nel solco tracciato dalla precedente pronuncia n. 183/2022, nel mirino della decisione della Consulta è finito l'articolo 9, comma primo, del Dlgs 23/2015, attuativo del Jobs Act e recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti.
La norma è stata dichiarata incostituzionale nella parte in cui espressamente stabilisce che, nel caso di licenziamenti illegittimi, inflitti da un'azienda che non abbia i requisiti dimensionali di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma dello Statuto dei lavoratori - e quindi non abbia in organico più di 15 dipendenti presso un'unità produttiva o nell'ambito di un Comune e comunque non occupi più di 60 lavoratori subordinati - l'entità massima delle indennità risarcitorie, non può comunque essere maggiore del limite delle sei mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, per ogni anno di servizio.
Per la Corte Costituzionale la fissazione di una tale stringente limite, a prescindere dalla gravità del vizio del licenziamento (potenzialmente anche molto grave), sommandosi alla previsione del dimezzamento degli importi di cui agli articoli 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del citato Dlgs 23/2015, comporta che la cifra dell'indennità risarcitoria sia compressa in modo così marcato - si legge nella sentenza: “da non consentire di soddisfare i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento” del danno patito dal lavoratore illegittimamente licenziato, né da assicurare la funzione deterrente della stessa indennità nei confronti dell'azienda.
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