La società madre di uno Stato membro dell’Unione europea che svolge talune attività in favore di un’altra società del gruppo stabilita in altro Stato UE e la cui remunerazione è calcolata in base al metodo del margine netto della transazione, cosiddetto Tnmm (suggerito dalle linee guida OCSE), emettendo fattura solo per la parte di tale margine che supera una certa misura percentuale, esegue una prestazione di servizi ai fini IVA. Quanto alla detrazione dell’imposta in capo alla destinataria delle prestazioni in questione, è legittimo che l’autorità fiscale esiga altri documenti in aggiunta alla fattura per sincerarsi della spettanza del relativo diritto e, pertanto, non solo dell’esistenza dei servizi, ma altresì del loro utilizzo in operazioni che siano a loro volta soggette al tributo. Nessun sindacato è invece ammesso in merito alla necessità o all’opportunità per il destinatario di acquisire detti servizi, posto che la detrazione non postula alcuna valutazione in tal senso.
Sono queste le conclusioni sulle due questioni pregiudiziali poste alla Corte di giustizia europea e risolte con la sentenza nella causa C-726/23 del 4 settembre scorso. Ma, mentre la seconda risposta fornita è in linea con i precedenti giurisprudenziali in base ai quali chi invoca la detrazione è tenuto a dimostrare che sono soddisfatte le relative condizioni, assai meno scontato è l’approdo cui giungono i giudici in merito alla prima questione.
Per cogliere la portata di questa parte della pronuncia, è bene partire dal caso concreto e quindi dalla relazione corrente fra le due società con riguardo all’applicazione delle regole del transfer pricing (TP). Dalla narrativa, si desume che le due società sono legate da un contratto che le impegna l’una nei confronti dell’altra e che la posizione della società-figlia (rumena), per essere allineata alle attività di propria competenza e ai rischi assunti, implica, stando alle regole del metodo di TP adottato, che la società madre (belga) emetta una fattura su base annua alla controllata, qualora il margine di utile operativo realizzato da quest’ultima superi il 2,74 per cento. Sarà invece la società-figlia a emettere fattura alla controllante, se tale margine scende sotto allo 0,71 per cento (così al punto 22 della sentenza). Per contro, non spetta alcuna remunerazione se il margine si assesta all’interno della “forbice” percentuale individuata.
Nella circostanza, è stata la società belga a emettere fattura nei confronti della controllata rumena ed è stata l’amministrazione fiscale della Romania a contestare il diritto di detrazione dell’imposta assolta (in reverse charge). Da qui, la domanda di pronuncia in ordine alla possibilità che un importo fatturato allo scopo di adeguare l’utile della società figlia in forza del metodo di TP, rappresenti effettivamente il corrispettivo per un servizio che rientra nel campo applicativo dell’imposta, cui potrà seguire la detrazione del tributo nel rispetto delle regole generali.
Nel fornire la risposta, i giudici europei, da un lato, si concentrano sulla verifica dell’esistenza del “nesso diretto” fra la prestazione resa e il controvalore ricevuto. Dall’altro lato, si preoccupano di escludere la rilevanza di possibili argomentazioni contrarie.
Quanto al primo aspetto, la sentenza rammenta che, ai fini dell’esistenza di una prestazione di servizi a titolo oneroso ai fini IVA, è necessario – prima condizione – che esista un rapporto giuridico che dia luogo allo scambio di prestazioni reciproche, nell’ambito del quale – seconda condizione – la remunerazione del prestatore rappresenti l’effettivo controvalore del servizio identificabile fornito al destinatario. Ovverossia è necessario che sia accertata la sussistenza del nesso diretto fra prestazione resa e controprestazione ricevuta. Nel caso di specie, è verificata sia la prima condizione, dato che il contratto prevede che la società madre fornisca determinati servizi (per la verità, pare lecito nutrire qualche perplessità, almeno in base a quanto si desume dal testo della pronuncia, sull’effettiva possibilità di individuare specifiche prestazioni di servizi nell’insieme di “attività” a carico della società madre) e che la società figlia versi il surplus di margine operativo rispetto alla percentuale del 2,74 per cento. Inoltre, i pagamenti della società rumena rappresentano la remunerazione per le attività svolte dalla società madre, le cui prestazioni (peraltro tipiche all’interno dei gruppi di società) influiscono sul margine della società figlia in termini di risparmio di costi o di miglioramento del servizio di quest’ultima. La remunerazione riconosciuta dalla figlia alla madre costituisce pertanto il controvalore effettivo delle prestazioni ricevute. Il che, realizzerebbe la seconda condizione necessaria a concludere che sussiste il nesso diretto fra il servizio reso e l’importo percepito.
Quanto alle possibili obiezioni che potrebbero essere sollevate a fronte del risultato interpretativo appena sintetizzato, il ragionamento si sviluppa in quattro punti.
In primo luogo, è affermato (condivisibilmente) che ciò che conta è che sussistano i presupposti individuati dalla normativa IVA per l’esistenza di una prestazione a titolo oneroso. E questo, prescinde dal fatto che la remunerazione sia stata fissata al fine di rispettare le regole in materia di transfer pricing. Ciò che conta è che il prezzo dei servizi ricevuti ne rappresenti il controvalore effettivo, circostanza che, per quanto argomentato, sarebbe verificata.
Secondariamente, l’estromissione dal campo applicativo dell’imposta delle prestazioni rese dalla società madre non è invocabile sostenendo l’irrilevanza IVA delle “attività” delle holding che si limitano alla detenzione delle partecipazioni. La società madre, infatti, “interferisce” attivamente nella gestione della società rumena, fornendole servizi commerciali e agendo quindi come holding “dinamica” che svolge attività economica.
Più articolato è l’ulteriore ragionamento relativo alle modalità della remunerazione, dal momento che la giurisprudenza europea ha talora escluso la rilevanza del “nesso diretto” fra prestazione e controprestazione in situazioni caratterizzate da elementi d’incertezza. La questione è delicata (su Blast del 5 settembre si è anticipato che si sarebbe tornati sul tema). Esiste infatti una incertezza che (ad avviso di chi scrive) può definirsi “assoluta” e possono invece sussistere elementi di incertezza che, tuttavia, nulla tolgono alla rilevanza dell’operazione. Appartengono alla prima categoria e sono dunque “non operazioni” ai fini IVA, difettando il nesso diretto prestazione/controprestazione, quelle fattispecie nelle quali, come nei casi delle sentenze C-16/93 e C-432/15, è del tutto incerta/imprevedibile, aleatoria o indeterminabile la corresponsione del corrispettivo. Così è per il suonatore di strada della sentenza C-16/93 che non sa se il pubblico pagherà e, se sì, quanto pagherà per l’esibizione. Allo stesso modo, non è dato sapere se il cavallo della sentenza C-432/15 che gareggia in una corsa ippica sarà vincente o almeno piazzato e quindi se riceverà o meno un premio (ancorché, in questo caso, potrebbe forse dirsi che sia la prestazione a essere incerta, considerando che essa consista nella vittoria o in altro risultato utile e che non è invece remunerata la mera messa a disposizione del cavallo per la corsa).
Ma, quando le modalità della remunerazione sono definite in modo preciso e in via anticipata, il corrispettivo è “certo” nell’ottica dell’imposta e configura l’esistenza del nesso diretto fra prestazione e remunerazione/controprestazione. Come è nel caso della sentenza C-713/21, in cui, sempre parlando di cavalli, da una parte è ravvisabile l’esistenza di una prestazione di servizi nel complesso delle attività rese dal titolare di una scuderia – cura, allenamento dei cavalli e loro partecipazione a competizioni ippiche – e, dall’altra parte, è prevista la corresponsione di una somma equivalente al 50 per cento dei premi ottenuti in gara. L’importo in questione rappresenta infatti una remunerazione individuata che garantisce la prevedibilità per il prestatore della somma cui lo stesso avrà diritto, a prescindere dall’ottenimento della vittoria o di un utile piazzamento e malgrado il fatto che la concreta dazione di tale somma sia condizionata proprio da tali risultati.
Allo stesso modo, nella situazione della recente sentenza C-726/23, anche la remunerazione della società madre belga “è esente da incertezze”, essendo le modalità della sua determinazione già individuate nel contratto che lega le due società, con l’effetto che esse “non incidono sull’esistenza di un nesso diretto fra tali prestazioni e il controvalore ricevuto”.
Da ultimo e qui si ritiene che la sentenza mostri i propri limiti: i giudici sostengono che a nulla rileva il fatto che, in base al contratto, potrebbe anche accadere che la remunerazione sia dovuta dalla società madre che rende le prestazioni. Ciò avverrebbe qualora il margine operativo netto della società figlia si collochi sotto allo 0,71 per cento. La questione è liquidata affermando che non è questo il caso in esame, visto che la situazione è quella inversa e che la possibilità che si realizzi una simile eventualità non è tale da “spezzare il nesso diretto tra la prestazione di servizi di cui trattasi” (ossia quella resa dalla società belga in favore della rumena) “e il corrispettivo ricevuto”. Né al riguardo si sbilancia l’avvocato generale nelle proprie conclusioni alla Corte, limitandosi ad affermare che tale evenienza “sarebbe sorprendente”, dato che le percentuali del margine per la società figlia sono state adottate in esito a uno studio di comparabilità alla luce delle condizioni di mercato e che, comunque, la fattispecie non è quella all’attenzione dei giudici, ipotizzando solamente che, in tal caso, le somme riconosciute dalla società madre alla società figlia potrebbero integrare un finanziamento dalla prima alla seconda.
A parere dello scrivente, la questione è tuttavia di rilievo. In disparte la possibilità che, stando alle previsioni contrattuali, nulla sia dovuto perché il margine si colloca all’interno del range previsto, il fatto che possa invece darsi la necessità (margine sotto lo 0,71 per cento) di invertire il flusso del pagamento (dalla società madre che rende le prestazioni alla società figlia che le riceve), pone non pochi dubbi sulla valenza delle conclusioni della sentenza a livello di principio generale.
In effetti, se nel caso in cui nessuno deve niente a nessuno – margine compreso fra lo 0,71 e il 2,74 per cento – la vicenda potrebbe essere ricondotta a una fattispecie di prestazione senza corrispettivo, da inquadrare in base alla disciplina delle operazioni a titolo gratuito, assai più “scomodo” è il tema di un fornitore di servizi (la società madre) che, oltre a rendere la prestazione, è tenuto anche a versare un importo in favore del destinatario della stessa.
La situazione è infatti diversa da quella in cui si deve decidere dell’inquadramento delle variazioni di prezzo di cessioni/prestazioni che sono state effettuate fra le parti. In tale ipotesi, ci si può rifare alle indicazioni in materia di transfer pricing adjustments che consentono di regolare tali variazioni per mezzo di note di debito/credito (articolo 26 del Dpr n. 633/1972), sempre che ne ricorrano le condizioni. È quanto recentemente ribadito dalla risposta a interpello n. 214 del 20 agosto 2025, la quale rinvia a precedenti contributi interpretativi della stessa Agenzia delle entrate, oltre che alla posizione illustrata nel Working Paper n. 923 del 2017 della Commissione europea e nel successivo documento n. 071 REV2 del 2018 del gruppo di esperti IVA europei (VEG).
Ma nel caso della sentenza C-726/23, come riconosce l’avvocato generale al punto 36 delle conclusioni, non si verte in materia di “modifica del prezzo della prestazione o del bene fatturato”, bensì di una fattispecie in cui “sembra che il metodo di calcolo del prezzo di trasferimento sia utilizzato direttamente per calcolare, a posteriori, la remunerazione della prestazione di servizi infragruppo, senza ulteriori rettifiche”. Ne deriva che, sempre come afferma l’avvocato nell’introduzione, ogni situazione deve formare oggetto di una valutazione “caso per caso” con la conseguenza che, se nella vicenda di causa, può concludersi per l’assoggettamento a IVA dell’operazione, non altrettanto può dirsi in generale. E, quindi (si ritiene), neppure qualora sia il fornitore del servizio a versare una somma al destinatario/committente della prestazione.
In tale eventualità, le soluzioni possono essere varie. Un’ipotesi potrebbe essere quella sopra accennata (sempre immaginata dall’avvocato generale) nella quale le somme corrisposte in aggiunta ai servizi prestati configurano una forma di finanziamento dalla società madre alla società figlia o un apporto a copertura perdite: entrambe le fattispecie non realizzano in sé operazioni rilevanti IVA. Ma potrebbe essere che, in base allo sviluppo concreto del rapporto, siano individuabili (anche) prestazioni dalla figlia alla madre, con possibili fatturazioni “incrociate” ed eventuali conguagli in denaro.
L’unica cosa certa è che la sentenza non chiude la questione.