«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». La frase-icona di Tomasi di Lampedusa, oggi rilanciata dalla serie Netflix campione di ascolti, descrive bene il dilemma del sistema fiscale italiano. Proprio come nel tramonto dell’aristocrazia siciliana raccontato dal Principe di Salina, nel fisco italiano da decenni tutto sembra cambiare – nuove leggi, ritocchi di aliquote, condoni periodici, rottamazione delle rottamazioni, etc. – affinché nulla cambi davvero nella sostanza. Ma ora, se si vuole evitare il declino irreversibile dello Stato sociale, è giunto il momento di una rivoluzione autentica: cambiare tutto per non veder svanire tutto. In altre parole, riformare radicalmente il sistema tributario per salvare ciò che di buono vogliamo preservare.
La crisi del sistema fiscale, pilastro dello Stato sociale
Il sistema fiscale italiano è spesso bersaglio di critiche feroci. Nonostante le entrate tributarie finanzino sanità, istruzione, pensioni e servizi pubblici essenziali, per larga parte dei cittadini il fisco appare soprattutto come un meccanismo vessatorio che toglie molto e restituisce poco. Alcuni dati confermano questa percezione: l’Italia figura stabilmente ai vertici mondiali per pressione fiscale – con un prelievo complessivo che nel 2023 si è attestato attorno al 42-43 per cento del PIL, terzo nell’OCSE dopo Germania e Danimarca, ben sopra la media del 33,9 per cento. A fronte di questo esborso, i servizi pubblici offerti risultano spesso carenti: l’Italia è ultima in UE per qualità percepita della Pubblica Amministrazione, con solo il 22 per cento dei cittadini che giudica “buoni” i servizi ricevuti. La sproporzione fra quanto si paga e quanto si ottiene indietro dallo Stato alimenta un senso diffuso di ingiustizia e inefficienza.
Inoltre, sul piano strutturale, l’attuale modello di prelievo mostra segni di profonda insostenibilità. Il nostro cuneo fiscale – ossia la somma di tasse e contributi sul lavoro – rimane tra i più elevati al mondo: circa il 45 per cento del costo del lavoro per un lavoratore medio single, quinto valore più alto tra i Paesi OCSE. Ciò penalizza l’occupazione, riduce i salari netti e incentiva sia il lavoro nero sia la fuga di talenti verso l’estero. Allo stesso tempo, la struttura tributaria italiana è estremamente complessa: si pensi alle miriadi di micro-tasse (dalle accise pluridecennali ai tributi locali di ogni sorta) e alle continue stratificazioni normative, che rendono arduo districarsi tra adempimenti e scadenze. Tale complessità favorisce probabilmente l’altissimo tasso di non conformità fiscale: il cosiddetto tax gap – il divario tra gettito teorico e gettito effettivo – rimane enorme, una voragine che sottrae risorse preziose allo Stato e costringe chi paga le tasse a pagarne di più per coprire il buco lasciato dagli evasori.
Come se non bastasse, sul futuro del nostro sistema grava l’inverno demografico. L’Italia è un Paese che invecchia rapidamente: ogni anno ormai i nuovi pensionati superano di gran lunga i nuovi nati. Nel 2023 si è toccato un record negativo con appena 379 mila nascite a fronte di 519 mila nuove pensioni erogate (link). Il risultato è che il tradizionale patto intergenerazionale – molti lavoratori attivi che con i loro contributi mantengono relativamente pochi pensionati – si sta rovesciando. Già oggi la spesa pensionistica assorbe circa il 15-16 per cento del PIL (contro una media UE del 13 per cento) e si prevede salga oltre il 17 per cento in 15 anni. A parità di altre condizioni, il fabbisogno di entrate tributarie per pagare pensioni e sanità (con una popolazione anziana crescente) tenderà ad aumentare, schiacciando ancor più le nuove generazioni già economicamente fragili. In altre parole, se nulla cambia, tutto è destinato a cambiare (in peggio): il tramonto progressivo dello Stato sociale così come l’abbiamo conosciuto nel dopoguerra.
Una riforma strutturale è la via obbligata
Di fronte a questo quadro emerge l’evidenza che l’attuale modello fiscale italiano non è più sostenibile, né economicamente né socialmente. Da un lato, resta imprescindibile garantire allo Stato risorse adeguate per finanziare gli attuali servizi e tutele; dall’altro, un sistema percepito come iniquo, inefficiente e oppressivo mina la fiducia collettiva e spinge all’individualismo fiscale (evasione, elusione, fuga di basi imponibili). Continuare sulla strada attuale significa alimentare un circolo vizioso: alta pressione fiscale + bassa qualità dei servizi = bassa compliance e scarsa crescita, che a loro volta aggravano i conti pubblici richiedendo ulteriori tasse, in un loop pericoloso.
Il dilemma del fisco italiano può essere riassunto così: come conciliare la necessità di risorse per lo Stato con la giustizia e l’efficienza del prelievo? Spesso il dibattito pubblico lo banalizza in uno scontro ideologico tra tassazione proporzionale e tassazione progressiva (flat tax sì o no). In realtà, questa contrapposizione – pur importante in termini di equità redistributiva – rischia di distogliere l’attenzione dalle soluzioni più strutturali e trasversali, che esulano dalla sola scelta dell’aliquota. Il vero nodo non è solo quanto far pagare in base al reddito, ma come disegnare un sistema fiscale che:
reperisca risorse senza soffocare l’economia;
ripartisca il carico in modo equo e percepito come tale;
sia semplice, trasparente e a prova di evasore;
incentivi la crescita e la creazione di lavoro;
sia al passo con le sfide demografiche e globali.
In quest’ottica, appare sempre più evidente che serva una riforma profonda. Non un ritocco cosmetico, ma una riprogettazione dell’architettura fiscale. Tutto deve cambiare affinché ciò che conta – la tenuta dello Stato sociale – non cambi irreversibilmente. Uno scenario in cui, per esempio, la sanità pubblica collassi per mancanza di fondi, o le pensioni dei giovani di oggi siano solo assegni simbolici domani, segnerebbe la fine del nostro contratto sociale. Per evitarlo, bisogna agire ora sul sistema tributario, prima che sia troppo tardi.
Volgiamo lo sguardo oltre confine: la scarsa competitività fiscale dell’Italia
Un campanello d’allarme arriva dal confronto internazionale. Secondo l’International Tax Competitiveness Index 2024 stilato dal Tax Foundation (link), l’Italia risulta avere uno dei sistemi fiscali meno competitivi del mondo avanzato. Siamo al 37° posto su 38 Paesi OCSE esaminati (peggio fa solo la Colombia) e ultimi in Europa. Questo indice misura quanto un sistema fiscale favorisce la crescita economica e la neutralità (ovvero distorce poco le scelte di famiglie e imprese). La bocciatura italiana deriva da diversi fattori strutturali: “molteplici imposte distorsive sulla proprietà” (abbiamo tasse su immobili e transazioni finanziarie, successioni, bollo auto, ecc., spesso sovrapposte) e un’IVA anomala, con aliquota standard elevata al 22 per cento ma base imponibile insolitamente ristretta. In effetti l’IVA italiana – pur con aliquota tra le più alte d’Europa – si applica a un paniere limitato di beni e servizi (pieno di esenzioni e aliquote ridotte), risultando la settima base imponibile più stretta dell’OCSE. Ciò significa che lo Stato ricava meno di quanto potrebbe dal consumo, compensando con tassazione extra su altri fronti, e al contempo crea disomogeneità nel mercato (cfr. “Ripensare l’Iva da zero: siamo pronti per una riforma coraggiosa?” su Blast del 6 marzo 2025).
Al polo opposto, i Paesi con sistemi più “virtuosi” offrono spunti interessanti su possibili best practices. L’Estonia, in testa alla classifica ITCI ormai da undici anni consecutivi, adotta un modello fiscale particolarmente lineare e innovativo: aliquota proporzionale del 20 per cento tanto sui redditi societari quanto su quelli personali, ma con la particolarità che l’imposta sulle società si paga solo sugli utili distribuiti (utile reinvestito = imposizione rinviata). Questo incentiva le imprese a reinvestire gli utili, favorendo crescita e capitalizzazione. Inoltre, l’Estonia tassa la proprietà immobiliare solo sul valore dei terreni, non sugli edifici e gli investimenti costruiti su di essi. In pratica, si colpisce la rendita fondiaria pura, evitando di penalizzare chi apportata migliorie o ampliamenti sugli immobili. Grazie a queste scelte, il sistema estone riesce a essere competitivo e relativamente semplice, con pochissime detrazioni o eccezioni.
Un altro esempio da citare è quello della Nuova Zelanda – costantemente ai primi posti della classifica ITCI – che presenta un’imposta sui consumi molto ampia e neutrale (IVA a gettito elevato con pochissime esenzioni) e un sistema di imposte dirette snello, con bassa tassazione sugli utili societari e niente imposta patrimoniale o di successione. Israele e i Paesi scandinavi mostrano come si possa coniugare progressività e incentivi: Israele ha un’efficiente tassazione duale con aliquote moderate e una base larga, mentre Svezia e Danimarca – pur con pressione alta – eccellono in compliance grazie a servizi pubblici di elevato livello e dichiarazioni dei redditi precompilate e semplici per i contribuenti.
Da questi confronti emergono alcuni spunti di riflessione. Primo, molti sistemi fiscali di successo puntano su strutture semplici e neutrali: meno tasse differenti, basi imponibili ampie, aliquote tendenzialmente basse o comunque non punitive, e forte uso della tecnologia per semplificare i rapporti fisco-contribuente. Secondo, i sistemi percepiti come equi sono quelli dove c’è trasparenza e corrispettività: il contribuente vede chiaramente dove vanno i soldi versati e ne riceve in cambio servizi di qualità. Nei Paesi nordici, ad esempio, la fedeltà fiscale è alta non perché la gente ami pagare le tasse, ma perché sa di ricevere sanità, istruzione e welfare eccellenti e ha fiducia nell’amministrazione pubblica.
Non siamo certamente i primi a formulare analisi ed avanzare suggerimenti su come intervenire sul sistema fiscale italiano. Le organizzazioni internazionali (OCSE, Commissione Europea, FMI) ripetono da anni raccomandazioni simili: allargare la base imponibile riducendo le tax expenditures, spostare il carico dal lavoro verso altri imponibili meno distorsivi, semplificare gli adempimenti, combattere l’evasione con mezzi tecnologici e inasprendo le sanzioni per i grandi evasori. Qualche passo avanti c’è stato – si pensi alla fatturazione elettronica obbligatoria, che ha migliorato la tracciabilità – ma troppo lentamente e spesso con timidezza.
Qualche idea per una fiscalità più sostenibile
Cosa fare, dunque, in concreto, per spezzare questo circolo vizioso e riconciliare fisco e cittadini? Di seguito proponiamo alcune linee di intervento che potrebbero confluire in una proposta di riforma organica. L’obiettivo è duplice: da un lato ridistribuire equamente il carico e ridurre l’oppressione fiscale complessiva, dall’altro rafforzare lo Stato sociale rendendo il finanziamento pubblico più sostenibile e accettato.
1. Un fisco più leggero e redistributivo
La prima sfida è riequilibrare il carico fiscale, sia tra le diverse categorie di contribuenti sia tra le basi imponibili, abbassando nel contempo la pressione generale. In pratica: far pagare tutti (persone e imprese) in modo più equo, per far pagare meno ciascuno. Ciò implica anzitutto allargare la base imponibile: ad esempio, riducendo le numerosissime esenzioni, detrazioni e agevolazioni fiscali che oggi erodono il gettito in maniera poco trasparente. L’ultima relazione annuale sulle tax expenditures del MEF conta oltre 600 voci di sconti tributari; un riordino che elimini quelle inefficienti o inique (mantenendo solo quelle con chiare finalità sociali/economiche) consentirebbe di recuperare risorse per abbassare le aliquote di tutti. Contestualmente, occorre spostare parte del prelievo dal lavoro – oggi ipertassato – verso basi imponibili meno penalizzanti per crescita e occupazione. Ad esempio, una moderata riallocazione su consumi e rendite: ampliando l’IVA (ma abbassandone l’aliquota standard se possibile, così da non colpire eccessivamente i ceti medi e bassi) e introducendo una seria revisione dei prelievi patrimoniali. Quest’ultimo punto è delicato ma cruciale: l’Italia oggi tassa il patrimonio in modo caotico e iniquo (piccole patrimoniali su conto titoli e casa all’estero, bollo auto, imposta di registro su immobili, IMU sulle seconde case, ecc.). Una riforma strutturale potrebbe unificare le tasse patrimoniali in un unico prelievo moderato ma equo – ad esempio, una Imposta ordinaria sul patrimonio immobiliare basata sui reali valori di mercato, esentando però la prima casa di abitazione entro una certa soglia di valore. Ciò andrebbe accompagnato dalla contestuale abolizione delle imposte distorsive come il bollo auto o l’imposta di registro sulle compravendite (che oggi frena il mercato immobiliare). In sostanza, meno imposte numerose e arbitrarie a favore di pochi tributi chiari e generalizzati. Sul fronte dei redditi personali, si potrebbe valutare una semplificazione degli scaglioni IRPEF, mantenendo la progressività ma riducendo drasticamente le aliquote effettive sui redditi medio-bassi. Ad esempio, aumentando la no tax area o l’assegno unico, in modo che chi guadagna poco sia quasi esentato, e finanziando ciò con la riduzione di agevolazioni regressivamente concentrate sui redditi alti. Per le imprese, l’IRES potrebbe scendere di qualche punto in cambio però dell’eliminazione delle mille deroghe e crediti d’imposta settoriali: meglio un’aliquota più bassa per tutti che mille sconti per pochi (anche per togliere spazio all’ottimizzazione/elusione). Un fisco più leggero e neutrale rilancerebbe anche la competitività: oggi l’Italia sconta aliquote nominali elevate (IRES al 24 per cento + IRAP oltre il 4 per cento, IRPEF fino al 43 per cento, IVA 22 per cento) che disincentivano investimenti e consumi, pur incassando poi meno di altri Paesi con aliquote più basse ma basi più ampie.
2. Colpire evasione ed elusione (senza strangolare di burocrazia)
Recuperare parte di quei circa 100 miliardi annui di evasione è fondamentale sia per una questione di equità (ridare giustizia a chi le tasse le paga tutte) sia per ottenere risorse con cui ridurre le aliquote. Oggi la lotta all’evasione va condotta in modo intelligente, sfruttando la tecnologia e la semplificazione, non solo inasprendo i controlli cartacei. Una direzione è quella della digitalizzazione spinta: l’Italia ha già introdotto obblighi di fatturazione elettronica e scontrini telematici, misure che iniziano a dare frutti in termini di emersione del sommerso. Si dovrebbe proseguire su questa strada estendendo l’incrocio automatizzato dei dati (banche dati finanziarie, immobiliari, fiscali) per far emergere incongruenze macroscopiche ex ante, senza attendere lunghi accertamenti ex post. Tecniche di data analytics e intelligenza artificiale possono aiutare a individuare i potenziali evasori con maggiore precisione, concentrando i controlli dove davvero c’è rischio elevato e alleggerendoli invece per i contribuenti fedeli. In parallelo, servono norme più semplici e chiare: spesso l’evasione prospera anche perché il groviglio normativo offre infinite scappatoie e zone grigie. Un codice tributario semplificato toglierebbe alibi e opportunità ai furbi, rendendo anche più facile per l’Amministrazione finanziaria verificare il dovuto. Importante è anche distinguere tra grande evasione/elusione (quella orchestrata da soggetti con elevata capacità contributiva, magari usando paradisi fiscali o frodi sofisticate) e la microevasione di sopravvivenza (il piccolo commerciante strangolato da tasse e burocrazia). Per i grandi evasori, bisogna alzare davvero la probabilità di essere scoperti e puniti severamente (oggi le sanzioni esistono ma la lentezza giudiziaria e i condoni frequenti le svuotano di deterrenza). Strumenti come lo scambio automatico di informazioni a livello internazionale e l’adesione a iniziative OCSE (es. BEPS per contrastare l’erosione di base imponibile delle multinazionali) vanno attuati senza tentennamenti. Per la piccola evasione diffusa, invece, oltre alla deterrenza serve convenienza a mettersi in regola: ad esempio, regimi fiscali agevolati ma tracciati (come la flat tax per le partite IVA minori, accompagnata da controlli sui “furbetti” che ne abusano) e semplificazioni massime negli adempimenti così che pagare il giusto sia meno oneroso, in termini di costi e tempo, che evadere. L’obiettivo deve essere un cambio di paradigma: da una burocrazia fiscale punitiva, fatta di modulistica infinita e sospetto generalizzato, a un sistema in cui lo Stato ti viene incontro – precompilando dichiarazioni, ricordando le scadenze, fornendo assistenza – e ti colpisce solo se cerchi di evadere deliberatamente. Così si può recuperare gettito senza uccidere l’economia sommersa di cui, piaccia o no, molti sopravvivono.
3. Tagliare i costi e gli sprechi dello Stato
Ridurre la pressione fiscale non sarà credibile se in parallelo non si agisce sul lato della spesa pubblica. È necessario un serio impegno per diminuire i costi di funzionamento della macchina statale, eliminando inefficienze, duplicazioni e spese improduttive. In un Paese dove la spesa pubblica totale è superiore al 50 per cento del PIL, ogni punto percentuale di spreco incide enormemente. Qui entrano in gioco le annose riforme della Pubblica Amministrazione: semplificare i procedimenti, digitalizzare servizi e archivi, ridurre gli enti inutili, accorpare le municipalizzate in eccesso, riorganizzare i livelli di governo locale per evitare sovrapposizioni di competenze. Meno burocrazia significa anche meno costi: ad esempio, procedure più snelle in sanità o giustizia liberano risorse economiche e di personale. L’innovazione tecnologica può far risparmiare molto – si pensi alla telemedicina, all’e-procurement per gli appalti, all’uso di software gestionali moderni – ma richiede investimenti iniziali e soprattutto un cambio di mentalità nei dirigenti pubblici. Un’altra area cruciale è la spesa per acquisti e forniture: ancora oggi assistiamo a scandalosi differenziali di prezzo pagati da ASL diverse per gli stessi farmaci o siringhe, o a opere pubbliche che lievitano di costi per varianti e ritardi. Rafforzare i controlli e la trasparenza sugli appalti, centralizzare alcune gare per ottenere economie di scala, introdurre indicatori di performance per i manager pubblici con premi e sanzioni, sono misure note ma troppo poco messe in pratica. Inoltre, la riduzione del debito pubblico (vicino al 140 per cento del PIL) aiuterebbe a contenere la grossa voce di costo degli interessi passivi, che drenano risorse altrimenti utili per servizi o riduzione della pressione fiscale. Va dunque perseguita una disciplina di bilancio che usi i risparmi da minori spese improduttive per abbattere il debito, innescando un circolo virtuoso (meno debito = meno interessi = più margini per tagliare tasse o investire in servizi). In sintesi, uno Stato più snello ed efficiente costa meno e quindi richiede meno entrate: è l’altra faccia della medaglia di una riforma fiscale efficace.
4. Dare valore alle tasse: migliorare i servizi per rafforzare la compliance
Un contribuente è più propenso a pagare se percepisce chiaramente il valore ricevuto in cambio. Per questo, la riforma fiscale va accompagnata da un impegno a elevare la qualità dei servizi pubblici. Sanità, istruzione, trasporti, giustizia: sono questi i campi in cui i cittadini giudicano concretamente la presenza dello Stato. Oggi la soddisfazione è bassa. Occorre invertire la rotta con interventi mirati: investire nella sanità pubblica riducendo le liste d’attesa, garantendo uniformità di prestazioni sul territorio e adottando standard di eccellenza (ad esempio, digital health records, più personale medico dove carente, etc.); potenziare la scuola e l’università, affinché chi paga le tasse veda i propri figli formati in istituti adeguati e non costretti ad emigrare per trovare opportunità; migliorare i trasporti pubblici (metro, treni locali, strade) così che chi versa bollo auto o accise sui carburanti possa beneficiare di infrastrutture decenti; velocizzare la giustizia civile, perché un sistema efficiente abbassa anche i costi per imprese e cittadini (meno spese legali, meno incertezza). Sono solo esempi, ma il concetto chiave è la correlazione positiva tra tasse pagate e servizi resi. Se questa correlazione si rafforza, aumenterà la tax compliance volontaria: paesi come la Finlandia o il Canada mostrano tassi di fedeltà fiscale elevati proprio perché la cittadinanza percepisce il pagamento delle imposte come contributo a un bene comune tangibile. Inoltre, un miglioramento dei servizi ridurrebbe la spinta alla spesa privata sostitutiva (si pensi alla sanità privata, scelta spesso per disperazione): ciò libererebbe reddito disponibile e competitività per famiglie e imprese, con effetti benefici anche sul gettito a parità di aliquote.
5. Un nuovo patto fiscale: educazione e fiducia
Infine, nessuna riforma funzionerà appieno se non cambia anche l’atteggiamento psicologico verso il pagamento delle imposte. In Italia la cultura fiscale storicamente è debole: complice forse la lunga dominazione straniera in passato, pagare le tasse è visto più come una vessazione da subire o evitare che come un dovere civico orgoglioso. È necessario lavorare su una rinascita del senso civico fiscale, e questo è un processo culturale di medio-lungo termine. Si potrebbe partire dalla scuola: inserire nei programmi scolastici basi di educazione finanziaria e fiscale, spiegando ai futuri cittadini perché esistono le tasse, come funzionano e a cosa servono. Un giovane che comprende meglio il legame tra imposte e servizi pubblici, tra evasione e danno sociale, sarà un adulto più incline a comportamenti responsabili. Anche campagne di comunicazione mirate possono aiutare: ad esempio evidenziando i modelli virtuosi (mostrare cosa si riesce a fare con le tasse ben utilizzate: un ospedale costruito, un bosco curato, un museo aperto) e smontando certi luoghi comuni. Purtroppo, non sempre giungono buoni esempi dall’alto: se politici e grandi aziende non rispettano le regole e non rinunciano a privilegi fiscali, l’opinione pubblica avrà maggiore difficoltà nel maturare fiducia. Ogni scandalo di corruzione o condono ai furbi mina anni di educazione. Risulta essenziale, quindi, ricostruire un rapporto di fiducia tra Fisco e contribuente: far capire che non è una guerra tra opposte fazioni, ma una collaborazione per far funzionare la società. Un fisco percepito come più giusto e vicino ai cittadini genererà anche una spinta etica a fare la propria parte. Questo “capitale sociale” è l’infrastruttura invisibile che dovrebbe sostenere il sistema tributario.
Riusciremo ad evitare il tramonto dello Stato sociale?
Ne “Il Gattopardo” il giovane Tancredi suggeriva di cambiare tutto per non perdere i privilegi di pochi. Oggi all’Italia si richiede di cambiare molto per non perdere il benessere di tutti. La riforma fiscale strutturale non è più rimandabile: è la condizione per scongiurare il tramonto dello Stato sociale sotto i colpi dell’insostenibilità finanziaria e della sfiducia civica. Continuare a navigare a vista, con piccoli aggiustamenti annuali, significherebbe condannare il nostro welfare a un’erosione lenta ma inesorabile. Già oggi vediamo segnali preoccupanti: giovani che non riescono a trovare lavori ben retribuiti (anche perché il costo fiscale del lavoro è alto), famiglie che rinunciano a cure mediche perché il sistema pubblico arranca e quello privato è costoso, lavoratori preoccupati per il futuro delle loro pensioni in un Paese in crisi demografica. Senza un cambio di rotta, queste tendenze non faranno che aggravarsi.
La buona notizia è che molte soluzioni sono state sperimentate altrove con successo: servono coraggio politico e visione strategica per attuarle. Ogni vera riforma scontenta inevitabilmente qualche interesse costituito – basti pensare alla resistenza che opporranno i beneficiari delle attuali esenzioni, o chi prospera nell’ombra dell’evasione. Tuttavia, l’alternativa a questo sforzo riformatore non è lo status quo idilliaco, bensì un lento declino: pressione fiscale sempre più alta su chi già paga, servizi pubblici sempre più degradati, crescenti disuguaglianze e conflitti sociali, fuga di capitali e cervelli, fino alla crisi conclamata del modello sociale.
Il tempo del Gattopardo fiscale è arrivato: sta a noi scriverne il finale, sperando sia di rinascita e non di rassegnazione.