Il diritto di contare: al vaglio della Corte costituzionale la legittimità dell’impatto del giudicato penale sull’accertamento tributario
di Alex Ingrassia
Dopo le Sezioni unite (si veda l’articolo Magic Beyond words), anche la Corte costituzionale è stata chiamata, in questo caso dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte, a giudicare l’ormai famigerato articolo 21 bis Dlgs 74/2000: questa volta non si tratta di comprendere l’esatta capacità di enforcement della disposizione, quanto di scrutinarne la legittimità al setaccio del diritto di difesa (articolo 24 Cost.) e del principio di uguaglianza (articolo 3 Cost.).
In effetti, la premessa del giudice rimettente è che la norma sia univoca nel suo significato, stante “la chiarezza e la perentorietà della voluntas legis”: se è intervenuta un’assoluzione passata in giudicato perché il fatto non sussiste, in sede amministrativa il decidente può solo prendere atto della decisione e attenervisi.
Così, nel caso oggetto del giudizio, l’assoluzione del legale rappresentante dall’accusa di omessa dichiarazione, perché non sussiste alcun fatto di esterovestizione dell’ente, preclude alla Corte tributaria di addivenire ad una conclusione diversa, nonostante nel processo amministrativo “sono emersi precisi e puntuali elementi indiziari che, ad un sommario esame, permetterebbero di motivare adeguatamente nel senso dell’esterovestizione della società svizzera, con conseguente fondamento della ripresa fiscale operata dall’Agenzia”.
Questo automatismo imposto dall’articolo 21-bis, che di fatto comprime la giurisdizione e il potere decisionale del giudice tributario, sarebbe, secondo l’ordinanza, in contrasto con gli articoli 24 (diritto di difesa) e 3 (principio di uguaglianza-ragionevolezza) Cost.
Gli argomenti spesi a supporto della tesi sono diversi e non possono in questa sede essere tutti compiutamente compendiati.
Tuttavia, a parere di chi scrive sembra che la pietra d’angolo dei dubbi di costituzionalità sia sintetizzabile come segue: nessuno nel processo penale rappresenta l’interesse erariale alla riscossione del tributo.
Segnatamente, secondo l’ordinanza di rimessione alla Consulta, l’Agenzia delle Entrate non sempre partecipa al processo penale e, se lo fa, costituendosi parte civile, non agisce per ottenere la riscossione del tributo, ma un danno “diverso dall’imposta evasa, dalle sanzioni e dagli interessi moratori previsti dalla legislazione speciale, [ch]e potrà consistere solo negli eventuali ulteriori e diversi pregiudizi supportati dalla p.a.” (richiamando le Sezioni unite civili 29862/2022).
Soprattutto, ed è questo il passaggio di maggior interesse e anello debole del percorso argomentativo, nemmeno il Pubblico Ministero rappresenterebbe la ragione fiscale, in quanto “organo portatore dell’interesse dello Stato alla repressione dei reati e, più in generale, all’attuazione della legge”. Prosegue la Corte tributaria: “il credito fiscale, infatti, alla luce della richiamata giurisprudenza di legittimità, non ha dimora all’interno del giudizio penale e, conseguentemente, non può essere il Pubblico Ministero il soggetto che garantisce l’interesse dello Stato alla riscossione delle imposte”.
Di conseguenza, l’automatismo imposto dall’articolo 21-bis, comprimerebbe il diritto di difesa dell’Agenzia delle Entrate, che dovrebbe subire gli esiti sfavorevoli di un processo in cui nessuno dà voce alla ragione fiscale.
Di più, sarebbe anche irragionevole il trattamento riservato “all’interesse dello Stato all’universalità della tassazione, se si considera che il regime probatorio è molto più rigoroso nel giudizio penale (laddove la condanna si fonda sul criterio del “oltre ogni ragionevole dubbio”) rispetto a quello tributario (laddove vige il criterio civilistico del “più probabile che non”)”. In altre parole: un regime probatorio come quello del processo penale, tutto orientato a garantire i diritti dell’imputato presunto innocente, favorisce troppo il contribuente a scapito della ragione fiscale.
In un climax crescente che trova qui il suo apogeo, l’ultimo profilo di criticità costituzionale, sotto il profilo del principio di uguaglianza-ragionevolezza, attiene alla non specularità degli effetti tra sentenza di assoluzione e di condanna: si sostiene che anche l’Agenzia delle Entrate dovrebbe poter beneficiare di un automatismo, che precluda ogni difesa in sede amministrativa al contribuente, ove l’imputato nel processo penale – per i medesimi fatti – sia stato riconosciuto colpevole.
Né si potrebbe obiettare, per sviluppare l’implicito dell’argomentazione, che il contribuente, nel caso sia un ente giuridico non imputato direttamente ex articolo 25-quinquiesdecies Dlgs 231/2001 e non chiamato quale responsabile civile, subisca gli esiti di un giudizio penale a cui non ha partecipato: si tratterebbe dello stesso destino che tocca all’Agenzia delle Entrate, perché nessuno rappresenta la ragione fiscale nel giudizio criminale.
Come si è anticipato, tutti i diversi profili di criticità costituzionale evidenziati nell’ordinanza sembrano poter tutti essere ricondotti al medesimo punctum dolens: nessuno rappresenterebbe la ragione fiscale nel processo penale che, per di più, con tutte le sue garanzie nell’acquisizione e valutazione delle prove e della responsabilità dell’imputato, non sembrerebbe affatto efficiente rispetto al recupero della tassazione, come, invece, lo sono il procedimento di accertamento dell’Agenzia delle Entrate e il processo tributario.
Il ragionamento non persuade affatto.
L’attuale sistema penale tributario è completamente orientato a garantire la ragione fiscale, fino a rinunciare – a seconda dei casi, in tutto o in parte – alla pena e alla sua funzione tanto rieducativa quanto simbolica, ove il tributo sia stato, seppur in ritardo, conseguito.
Due esempi paradigmatici tra i molti che si potrebbero fare.
(i) Pensiamo ai delitti di omesso versamento delle ritenute certificate e dell’IVA: il sistema penale serve a riscuotere quanto precedentemente non versato dal contribuente, minacciando il contribuente stesso o il suo legale rappresentante di una pena detentiva e di una confisca anche dei suoi beni personali. La minaccia resta tale, però, se il debito tributario, comprensivo di interessi e sanzioni, viene saldato – non importa da chi – prima dell’apertura del dibattimento: il reato non è punibile. Addirittura, è previsto uno “sconto” e un tempo più lungo per estinguere il debito senza subire conseguenze penali, se la rateizzazione avviene a seguito di controllo automatizzato, secondo le cadenze dell’articolo 3-bis Dlgs 462/1997.
(ii) Altro esempio paradigmatico è la confisca per equivalente del profitto del reato tributario, ovvero l’imposta evasa-risparmio di spesa. Si tratta di una pena principale, che dovrebbe avere la funzione, da un canto, di sottrarre ricchezza illecita a chi l’ha indebitamente ottenuta (“crimen non lucrat”) e dall’altro a soddisfare la ragione fiscale. Il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente permette poi, fin dalla fase delle indagini preliminari, di far apprendere beni di valore pari all’imposta che si ipotizza evasa, con un’efficienza ed efficacia – se così si vuol dire – invidiabile e difficilmente riscontrabile in altri rami dell’ordinamento.
Anche questa minaccia di matrice patrimoniale resta solo una minaccia, ove sia in corso un piano di rateazione per estinguere il debito tributario.
Ma c’è di più.
La confisca non opera nel caso in cui il debito sia estinto dall’ente contribuente, anche qualora il profitto dei reati – si pensi alla retrocessione di denaro in caso di fattura per operazione inesistente – sia stato effettivamente incamerato dall’imputato: qui, soddisfatta la ragione fiscale, si rinuncia alla pretesa rieducativa, lasciando senza colpo ferire il profitto illecito nella disponibilità dell’autore del reato.
Se così è, se cioè si sono intese le ragioni profonde della questione di legittimità costituzionale e se si riconosce ormai l’evidente finalità tutta riscossiva del diritto penale tributario, l’occasione per la Corte costituzionale è di squarciare ogni velo di ipocrisia sul finalismo del sistema penale-tributario, riconoscendone proprio la matrice riscossiva, prevalente sulle finalità classiche del diritto penale e della pena e, per tale via, cominciando ad individuare le necessarie barriere alle derive iper-efficientistiche.
Un esempio? Sgombrare il campo dall’idea che l’Agenzia delle Entrate e il Pubblico Ministero da una parte e il contribuente e l’imputato dall’altra debbano e possano essere posti in una posizione di perfetta parità, per cui, se c’è automatismo per l’assoluzione, ci debba essere pure per la condanna, come se i cittadini e le imprese avessero gli stessi poteri di intervento sulla sfera dei diritti personali e sul patrimonio degli organi rappresentativi dello Stato.
Sarebbe, allora, possibile muoversi in direzione esattamente opposta, in una logica di uguaglianza sostanziale e non formale, riconoscendo che, se viene messa in campo la più penetrante macchina di accertamento ed invasione dei diritti individuali, qual è il diritto e il processo penale, e, nonostante ciò, non si sia dimostrato il fatto da cui dovrebbe derivare l’evasione, un ordinamento equilibrato può anche fare un passo indietro in sede tributaria e rinunciare – non irragionevolmente – alla propria pretesa fiscale.
Non perché sia la scelta più efficiente per le casse dello Stato (che, per paradosso, allora, sarebbe quella di continuare a fare processi finché un giudice non dia ragione all’Agenzia delle Entrate), quanto perché è la più democratica, in una logica di bilanciamento tra poteri e interessi in conflitto.