Femminicidi: non basta (ovviamente) l’introduzione del nuovo reato. Anche il linguaggio può servire
di Francesca Negri
In un articolo su Blast di qualche mese fa, mi sono già occupata di analizzare, seppur succintamente, il disegno di legge sull’“Introduzione del delitto di femminicidio e altri interventi normativi per il contrasto alla violenza nei confronti delle donne e per la tutela delle vittime”, presentato dal Governo a marzo 2025.
Purtroppo, la frequenza dei femminicidi non accenna a diminuire. Le modalità con le quali vengono commessi appaiono sempre più feroci, e anche l’età degli autori e delle vittime sembra pericolosamente abbassarsi.
Recentemente 80 docenti universitarie di Diritto penale hanno firmato un appello contro l’introduzione del reato di femminicidio, sostenendo che occorrerebbe non tanto l’introduzione di un reato autonomo (che sembrerebbe assumere una valenza solo simbolica) quanto piuttosto una più efficace prevenzione e una “riflessione che tenga conto della complessità del fenomeno, le cui cause sono radicate nella cultura e nella struttura della società”.
Anche a noi sembra necessario e importante tornare a parlarne, perché si tratta di un fenomeno sociale di particolare gravità e di difficile soluzione.
In generale, ritengo che la previsione di una fattispecie autonoma all’interno del nostro codice penale non sia di per sé sbagliata. Esistono però due piani di riflessione.
Da un lato, quello tecnico, e cioè il modo in cui è stata scritta la norma: da più parti sono state sollevate critiche per sottolinearne possibili profili di incostituzionalità. Se questo è il problema, però, la soluzione non è eliminare la norma ma eventualmente riscriverla o aggiustarla eliminando il pericolo lamentato.
Ma quello che mi preme evidenziare è il secondo livello del ragionamento.
È evidente che la repressione non possa rappresentare l’unica strada per cercare di risolvere (o quantomeno di contenere) la violenza contro le donne. Ma prevedere un reato autonomo non la preclude, anzi a mio parere la rafforza. Il riconoscimento giuridico di questo fenomeno (che presenta delle caratteristiche diverse da ogni altro e proprio per questo andrebbe accolto con favore) non è l’unico, ma è uno dei passi che si possono muovere, accanto alle attività di prevenzione, senz’altro imprescindibili.
La donna è ancora oggi considerata un essere inferiore che si può sottomettere e possedere, anche con la forza: ecco, questa è la mentalità che deve cambiare.
E questo cambiamento deve partire dalla scuola.
Se insegniamo alle bambine che il massimo dell’appagamento è essere salvate o, peggio ancora, scelte dal “principe azzurro”, e non le educhiamo a diventare donne autonome, in grado di svolgere qualsiasi professione e di compiere qualsiasi scelta di vita ritengano soddisfacente, cresceremo delle donne che più facilmente diventeranno dipendenti da qualcuno, o da qualcosa.
Nello stesso modo, se insegniamo ai bambini che devono essere forti, che devono primeggiare, possedere denaro e successo, se trasmettiamo loro l’esaltazione della potenza del maschio dominatore, a cui tutto è concesso, e non li prepariamo ad accettare i fallimenti e le sconfitte (inevitabili nel corso della vita), è abbastanza certo che diventeranno degli uomini incapaci di accettare i dinieghi e di gestire le frustrazioni. E qui il seme della violenza (nei confronti della donna che non lo accetta più, per esempio) è già piantato.
L’attività di prevenzione deve quindi iniziare nelle scuole, in particolare nelle primarie – e addirittura nella scuola dell’infanzia –, deve proseguire in quelle secondarie, deve arrivare alle università e approdare anche nei luoghi di lavoro. Devono essere impiegate figure specializzate che sappiano parlare ai ragazzi (o agli adulti) ma che siano anche profondamente competenti. Non solo psicologi ma anche, per esempio, giuristi. Non solo lezioni sull’affettività ai ragazzi ma anche attività formative per i docenti. Molto altro si può prevedere e anche noi adulti non possiamo sottrarci, se vogliamo davvero contribuire al cambiamento.
È necessario che tutti noi ci si metta in discussione, a partire dal linguaggio che usiamo. Ad esempio, è uscita da poco una serie tv che si intitola “Maschi Veri” ed è una parodia del c.d. machismo. Fra le varie scene di maschilismo, apparentemente inconsapevole, dei quattro amici protagonisti, ce ne sono diverse nelle quali uno rimprovera costantemente gli altri perché utilizzano un linguaggio pesantemente sessista. E loro, per tutta risposta, lo ridicolizzano perché “allora non si può più dire niente”.
Ecco, partiamo anche noi da qui, dal fatto che non proprio tutto, ma molto, non si debba più ascoltare, neanche nelle occasioni conviviali, nelle quali, per esempio, dovremmo iniziare a contestare, senza ammetterlo neanche per scherzo, un linguaggio che trasmetta messaggi tanto assurdi quanto sbagliati sull’inferiorità della donna, sulle sue asserite incapacità, sull’utilizzo del suo corpo per avere successo, eccetera.
Il rischio è di venire a nostra volta scherniti o considerati esagerati, ma il cambiamento culturale deve passare da qualche forzatura, se così la vogliamo chiamare.