Detrazione Iva e fatture non registrate: eccessivo il rigore delle Entrate
di Massimo Sirri
La risposta all’interpello n. 115 del 2025, oltre alle pertinenti osservazioni a caldo (si rinvia a Cramarossa e Marini su Blast del 17 aprile scorso), sollecita ulteriori riflessioni che coinvolgono diversi piani di ragionamento.
Rammentiamo innanzitutto la questione. Le Entrate considerano che non possa essere recuperata la detrazione su fatture ricevute nell’anno 2023, ma non registrate né in tale anno né entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa alla medesima annualità. Allo scopo, sempre per le Entrate, non sarebbe utilizzabile la dichiarazione integrativa “a favore” perché la mancata registrazione delle fatture esprimerebbe una chiara volontà di rinunciare alla detrazione e l’omissione non integrerebbe “gli estremi dell’errore rilevante ed essenziale”, idoneo – come tale – a essere rimediato ricorrendo all’istituto dell’integrativa.
Una prima riflessione concerne la collocazione delle indicazioni della risposta rispetto all’inquadramento del diniego di detrazione nella prospettiva della giurisprudenza. Le Entrate chiamano a sostegno alcune sentenze della Corte di giustizia UE che enfatizzano la possibilità di limitare il diritto di detrarre alle condizioni e alle modalità previste dalle norme nazionali. E ciò, al fine di garantire la certezza del diritto e la necessità che la posizione fiscale del contribuente non sia “indefinitamente rimessa in discussione”. Tutto vero. Così come è vero che è consolidato anche l’orientamento secondo cui, in ossequio al principio della neutralità dell’imposta, la detrazione compete “tutte le volte in cui siano rispettate le condizioni sostanziali cui la normativa comunitaria ricollega l’insorgenza del diritto, anche se taluni obblighi formali siano stati omessi dai soggetti passivi” e che l’adempimento degli obblighi formali assume rilievo solo nella misura in cui risulti necessario a fornire alle autorità fiscali le informazioni utili a verificare se siano soddisfatti i requisiti sostanziali per l’esercizio del diritto (così Cassazione, nella sentenza n. 18924 del 24 settembre 2015, con richiami ad altrettante pronunce unionali). Il tema è dunque quello del bilanciamento fra il principio della neutralità dell’imposizione – che potremmo definire come il fine cui deve tendere l’ordinamento – e le doverose esigenze di controllo della spettanza del diritto alla detrazione. Bilanciamento che, in una prospettiva temporale, deve realizzarsi in un tempo “definito” al fine di salvaguardare la certezza del diritto.
Secondo ordine di osservazioni. La certezza del diritto rimanda, quasi come un riflesso condizionato, alla tutela dell’affidamento e della buona fede cui è intitolato l’articolo 10 dello Statuto del contribuente, il cui primo comma prevede, programmaticamente rispetto alle disposizioni sulla tutela del legittimo affidamento, che “I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”. Ovverossia entrambi gli attori del rapporto tributario sono vincolati reciprocamente dai doveri di correttezza, lealtà e buona fede. Ciò che, nel caso della risposta a interpello, solleva qualche perplessità, essendo perlomeno lecito dubitare che l’Amministrazione finanziaria abbia effettivamente fatto buon governo della regola di collaborazione e buona fede. Non è infatti agevole cogliere la ragione per cui il mancato esercizio della detrazione a causa dell’omessa registrazione delle fatture rappresenterebbe un’esplicita rinuncia alla detrazione stessa e non invece un “errore rilevante ed essenziale”, com’è stato invece giudicato quello del contribuente di cui alla precedente risposta n. 479 del 18 dicembre 2023, il quale aveva sì registrato le fatture, ma non aveva poi esercitato la detrazione, venendo tuttavia ammesso al recupero del tributo mediante presentazione di dichiarazione integrativa.
Vi sono poi altri rilevanti profili. Per cominciare, è riscontrabile un’intrinseca incoerenza nell’orientamento del recente interpello (e di quello del 2023). La circolare n. 1/E del 2018, richiamata da entrambe le risposte delle Entrate, autorizzando la detrazione mediante dichiarazione integrativa, si riferiva infatti alle fatture “ricevute” senza menzionare la loro registrazione (che compare per la prima volta nella risposta n. 479) e, anzi, prevedeva la punibilità “isolata” di tale inadempimento, all’evidenza ritenendolo ininfluente sulla possibilità di presentare l’integrativa. L’obbligo della previa registrazione ai fini del recupero postumo dell’IVA rappresenta dunque un elemento aggiunto, idoneo – quantomeno – a configurare un revirement interpretativo con ricadute sul legittimo affidamento. Senza contare che l’introduzione di (presunti) limiti all’efficacia e all’ambito applicativo della rettifica delle dichiarazioni pare configurare un’ipotesi di norma “creata” per via amministrativa, secondo una prassi assai discutibile.
Da ultimo, va rammentato che, in caso di presentazione di un’integrativa, i termini per l’accertamento decorrono dalla presentazione della dichiarazione rettificata, limitatamente agli elementi oggetto d’integrazione. Il che riporta concentricamente l’attenzione rispetto al tema della necessità che la posizione fiscale del contribuente non sia “indefinitamente rimessa in discussione”. Ossia sorge il sospetto che neppure questa argomentazione possa validamente supportare l’asserita limitazione al recupero della detrazione, dato che v’è un termine per nulla “indefinito” entro il quale la posizione IVA del soggetto passivo deve trovare il proprio conclusivo assetto.