Dati al posto del grano. Il paradosso digitale del nuovo paesaggio
di Gabriele Silva
In un precedente intervento ci siamo chiesti cosa succede quando l'erba lascia spazio alla logistica. Questa volta alziamo lo sguardo di qualche metro, ma restiamo con i piedi ben piantati nel terreno. O meglio, in quello che resta del terreno, dopo che ci si costruisce sopra un data center.
Non c'è bisogno di cercare molto lontano. Sempre più spesso, ai margini delle nostre città o direttamente nei campi, spuntano enormi parallelepipedi grigi. Non sono supermercati. Non sono uffici. Non sono neppure fabbriche. Sono data center. E sono ovunque.
I data center sono le cattedrali moderne del nostro tempo. Strutture fisiche, immense, progettate per ospitare infrastrutture IT: server, storage, apparati di rete, sistemi di sicurezza. Sono il cuore tecnologico del mondo digitale. Servono a elaborare, archiviare, proteggere e rendere accessibili i dati che utilizziamo ogni giorno, anche senza saperlo. Ogni nostra azione online – un messaggio, una foto, una prenotazione, una ricerca – passa per uno di questi templi grigi.
Col tempo, sono diventati sempre più sofisticati. Da semplici bunker aziendali a veri e propri ecosistemi virtualizzati, distribuiti in cloud pubblici, privati e ibridi. Oggi, un data center non è solo un magazzino digitale. È un organismo vivo, che respira energia e produce calore. Tanto calore.
E qui iniziano i problemi.
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