Cedolare secca e conduttore impresa: la Cassazione smentisce nuovamente il dogma dell’Amministrazione finanziaria
di Simona Baseggio e Barbara Marini
Ne avevamo già dato conto su Blast il 28 marzo scorso. Ora, a distanza di poche settimane, la Corte di cassazione – con la sentenza n. 12079 depositata in data 7 maggio 2025 – torna, con chirurgica nettezza argomentativa, a ribadire quanto già affermato nella precedente pronuncia n. 12395/2024: la cedolare secca, regime opzionale previsto dall’articolo 3 del DLgs 23/2011, è applicabile anche laddove il conduttore sia un’impresa, sempreché l’immobile locato sia destinato ad uso abitativo.
La tesi non è nuova né particolarmente ardita. Ciò che appare invece sempre più singolare – e, diremmo, ormai difficilmente giustificabile – è la persistente resistenza dell’Amministrazione finanziaria a prenderne atto. Resistenza che si fonda su una lettura di origine circolare (26/E del 2011), che nel tempo si è autonominata dogma, disancorandosi progressivamente tanto dalla littera quanto dalla ratio della norma.
Ed è su questo crinale – non già tra interpretazioni alternative, ma tra diritto positivo e costruzione apocrifa – che si consuma l’attuale tensione istituzionale. La legge, nella sua formulazione originaria, è di una chiarezza disarmante: il presupposto soggettivo per l’accesso al regime della cedolare è esclusivamente in capo al locatore, persona fisica, che non agisce nell’ambito di attività d’impresa, arte o professione. Nessun elemento testuale consente, neppure in via esegetica, di attribuire rilevanza al profilo soggettivo del conduttore. Che sia persona fisica, giuridica, ente o impresa, nulla muta nel paradigma normativo.
Nel caso di specie, oggetto della sentenza del 2025, un privato aveva locato un immobile abitativo ad una società, la quale ne consentiva l’utilizzo al proprio amministratore. La pretesa dell’Agenzia delle Entrate – secondo cui la natura imprenditoriale della parte conduttrice sarebbe stata, di per sé, ostativa all’opzione per la cedolare – è stata, ancora una volta, cassata. In senso proprio e tecnico.
Il punto, però, non è (più) giuridico. È politico-amministrativo. Già dinanzi alla prima pronuncia del 2024, l’Amministrazione aveva parlato di “precedente isolato”. Oggi, dinanzi a una seconda conforme, che si innesta nello stesso filone motivazionale e ne ripropone, senza incertezze, gli argomenti fondanti, ci si chiede: si persevererà ancora nell’appellarsi a una presunta dispersione giurisprudenziale? Si continuerà a invocare, come conditio sine qua non del ripensamento amministrativo, il miracolo del “consolidamento giurisprudenziale”, quasi che il diritto – anziché interpretarsi – debba accumularsi?
Siamo, in tutta evidenza, fuori dal perimetro del dibattito tecnico, e dentro un’(ennesima)anomalia. Perché, se è vero – come è vero – che il diritto non tollera il silenzio dinanzi all’evidenza normativa, ancor meno tollerabile è che l’apparato amministrativo si arroghi la facoltà di non mutare indirizzo interpretativo se non previa certificazione di un numero minimo di pronunce di legittimità.
Se, dunque, il MEF persiste nel silenzio, che sia almeno il legislatore – con norma interpretativa - a prendere atto dell’ovvio, codificando espressamente quanto già scritto, nero su bianco, nelle motivazioni della Corte. E se nemmeno questo dovesse accadere, resta il compito – che non è secondario – della dottrina e della stampa specializzata: continuare a indicare il dato normativo nella sua chiarezza, ricordando che la cedolare secca spetta anche nel caso di conduttore-impresa, quando sussista la destinazione abitativa.
Non si tratta di un’eresia ermeneutica. È, semplicemente, una lettura fedele della legge. Confermata anche dalla giurisprudenza, che a quella legge dà voce.