Episodi 1 e 2
I grandi della Terra - Episodio 3
Como, 15 settembre
Completi neri, con qualche eccezione virante al grigio per i più eccentrici, attraversavano la bussola di cristallo e legno dorato, mentre scarpe di Ferragamo, Church’s, o Louis Vuitton, nella scelta delle calzature i grandi della terra erano ancora molto sciovinisti, passavano dal brecciolino scricchiolante del patio alla silenziosa moquette morbida e azzurra dell’atrio come ombre logorate dagli anni e dal potere.
All’interno, le sale della villa con affreschi, specchi e lampadari di cristallo si animavano di sussurri e strette di mano.
Il profumo di caffè si mescolava a sentori di spezie esotiche e bacon fritto ad arte, mentre i primi discorsi, sussurrati e cauti, ronzavano nell’aria.
«La crisi, signori, è un’opportunità...», una voce roca, con accento straniero appena percettibile, recitava questo mantra.
«Ricordate la rivoluzione industriale, dobbiamo fare tesoro degli insegnamenti del passato, non c’è nulla da temere dalle novità», un’altra voce, questa volta di donna, suadente ma ferma ripeteva questa frase a ogni stretta di mano.
Fuori, il lago rifletteva un cielo terso, indifferente alle trame che si stavano tessendo in quel luogo di potere.
Il Forum di Cernobbio, nato nel 1975 come incontro informale tra economisti, si era trasformato negli anni in un crocevia di poteri, un luogo dove si decidevano le sorti del mondo e si intrecciavano conversazioni che sapevano di futuro, con un forte retrogusto di segreti e ambizioni nascoste.
Di edizione in edizione i temi più rilevanti e attuali venivano affrontati e sviscerati; quest’anno l’argomento caldo era l’intelligenza artificiale, una forza inarrestabile che prometteva di rivoluzionare ogni aspetto della vita umana.
Tra i partecipanti, c’erano volti noti dell’alta finanza, politici influenti, qualche premio Nobel, ma anche figure più sfuggenti, imprenditori della Silicon Valley con un passato da hacker, o ex agenti dei servizi segreti con un debole per la tecnologia.
L’aria era più densa che altrove, vibrante ed elettrica, un misto di curiosità intellettuale attraversata da una tensione sottile, quasi impercettibile, che pulsava sotto la superficie della cordialità forgiata da anni di equilibrismi diplomatici.
La luce del lago in settembre restituiva agli occhi del mondo un’illusione di trasparenza, un velo scintillante dietro il quale si muovevano fili robusti annodati a formare trame scure.
I custodi delle economie mondiali, i visionari della tecnologia, i teorici che traducevano i numeri in narrazioni, coloro le cui parole erano in grado di plasmare la realtà erano, in quei pochi giorni di inizio settembre, tutti riuniti sotto un unico tetto.
Chi, per i motivi più vari, si trovava a respirare quell’atmosfera ne percepiva l’eccitazione ricavandone la consapevolezza di essere al centro di decisioni che avrebbero avuto ripercussioni percepibili ben oltre le rive del lago.
Era questo il motivo per cui, negli ultimi cinque anni, Dellandito aveva fatto letteralmente carte false per partecipare, seppur solo come spettatore, a quell’evento.
La sua sensibilità, però, dopo le prime edizioni in cui tutto era nuovo ed eccitante, gli aveva permesso di intuire, se non comprendere appieno, che di incontro in incontro l’atmosfera di libertà intellettuale era scemata, come se da un’edizione con l’altra il terreno dove avrebbero dovuto germogliare idee e decisioni fosse sempre più preparato, una scacchiera su cui le mosse più importanti erano già state previste e suggerite da una regia invisibile.
Negli ultimi summit al centro di questa costellazione di influenze si percepiva un sole caldo e potente attorno cui tutto ruotava, una figura carismatica la cui gravità riempiva le sale e dettava le agende senza bisogno della sua presenza fisica.
A rompere il silenzio nello studio d’angolo affacciato sul lago fu una rapida successione di tocchi, la porta di mogano risuonò come una cassa armonica.
Il tamburellare ritmico che strappò Di Lauri dal lavoro era un codice vecchio di trent’anni inventato ai tempi dell’università.
«Bene, sei arrivato. Il più è fatto. Adesso non resta che passare inosservato. Non devi farti notare da quei Lanzichenecchi di guardia. Nessuno dovrebbe avere nulla da ridire; oltre i controlli all’ingresso la security ha ordine di non disturbare gli ospiti, a meno che non scatti un’allerta. E, per ora, sono ancora io a decidere il grado di rischio qui dentro.»
«Come sempre, ti sono debitore.»
«Non lo ripetere, so bene quanto ti piaccia ficcare il naso tra i potenti della Terra.»
«Per piacermi mi piace, ma se il prossimo anno mi chiedi di nascondermi in un cesto della biancheria, ti avverto, declino l’invito. Un briciolo di dignità bisogna pur salvarlo.»
Il lampo ironico sulla faccia di Di Lauri valeva più di mille risposte, l’idea di cacciare l’elegante amico in una cesta di biancheria lo divertiva, si dispiacque di non averci pensato. «Esagerato! Stavolta è stato solo un po’ più complicato, la sicurezza è in outsourcing, non ti conoscono e ho meno ascendente su di loro. Ho dovuto inventarmi qualcosa, usare un trucchetto è stato più semplice rispetto a spiegare che da cinque anni ti faccio entrare senza invito.»
«Inventarti? Addetto alle pulizie! Questa sarebbe la tua fantasia?», disse Dellandito indicando il cartellino plastificato con il logo Cleaning Fast in rilievo che luccicava colpito dal sole.
«Un completo Armani blu notte con la targhetta di uomo delle pulizie è una farsa, fossi in te licenzierei tutti per avermi fatto entrare.»
Lui scrollò le spalle, divertito. «Hai ragione, qui a Villa d’Este gli spazzini non hanno la tua eleganza. Devo ammetterlo, hai sempre un gusto impeccabile. Le tue cravatte sono strepitose.»
«Non ne ho mai comprata una. Sono tutte di mio padre, ne possiede quasi un migliaio e ne indossa solo una alla volta. Il resto è a mia disposizione. Le più belle sono vintage, a Como era facile trovarne di splendide. Con una collezione simile, abbinarle al resto dell’outfit diventa un gioco.»
Mentre Di Lauri annuiva, un’ombra gli attraversava il volto. «Quest’anno non ho un attimo di tregua. Senza il mio solito staff, tutto è più complicato. Non avrò modo di starti dietro come al solito. Dovrai cavartela da solo. Mi raccomando, passa inosservato.»
«Come sempre sarò discreto.»
«No, ti prego… quel “come sempre” mi mette i brividi. A proposito ti invitano ancora al consolato sud-coreano?»
«Certo, ogni anno. Come potrebbero fare diversamente?»
«Quello che non capisco è come tu sia riuscito a dare consigli fiscali a un ministro asiatico. E soprattutto come lui abbia fatto ad ascoltarti davvero.»
«Il ministro è un caro amico dei tempi dell’università, è bastato ricordargli il passato e sfoggiare un po’ di faccia tosta. Ero al posto giusto, nel momento giusto. Sai che la Corea del Sud ha avuto il calo di natalità più rapido tra i paesi industrializzati? Negli anni ’50 c’erano sei figli per donna, oggi meno di uno.»
«E questa come la sapevi?»
«Ho le mie fonti. Comunque non è solo la Corea, la natalità è un problema che tormenta governi ovunque, dal Regno Unito agli Emirati. Io ho buttato lì l’idea, perché non analizzare cinquant’anni di politiche fiscali?»
«Il tuo solito pallino. Per te le tasse spiegano qualsiasi cosa.»
«Non è un pallino, è realtà. Pochi Stati hanno il coraggio di scavare, il ministro Cho Jin-hwan, invece, sì. Ha voluto capire se la pressione fiscale influisse sulle scelte di avere figli. E in effetti nessuno aveva studiato la connessione seriamente.»
«Beh, che più tasse significhino meno bambini è quasi ovvio. Ma da lì a commissionare uno studio per convincere un paese intero a fare più figli… devo dire che sei stato abile.»
«Io non ho convinto un paese intero. Mi è bastato farlo solo con Cho! Davanti a una tazza di tè, servita in porcellane Hermès Cheval d’Orient, a proposito, qui a Villa D’este avete ottimo gusto per le stoviglie.»
«Almeno la spesa folle dell’albergo per quel servizio è servita a qualcosa.»
«Comunque, grazie allo studio il governo della Corea del Sud ha scoperto che dagli anni ’60 in poi il calo della natalità ha seguito di pari passo l’aumento della pressione fiscale. Ogni grande riforma ha coinciso con i crolli più netti. Insomma, la tassazione può diventare un’arma di politica demografica.»
«E tu lo chiami “fare conversazione” …»
«Evidentemente ha funzionato. Ora sono ospite fisso agli eventi diplomatici coreani a Milano. Anna li adora: musica tradizionale, ospitalità impeccabile, il suono dei gayageum e dei daegeum ti ipnotizza.»
«Per me sono un frastuono insopportabile come unghie su una lavagna.»
«Ignorante. Lo scorso settembre il cortile del palazzo di Piazza Cavour era pieno di lanterne di carta, incenso, fiori… Cho era lì in hanbok, quasi irriconoscibile. Vuoi sapere cosa mi piace di più di quelle serate?»
«Credo di saperlo.»
«Il menù.»
«Appunto.»
«Un viaggio sensoriale. Japchae, pajeon, tteok-galbi, quelle polpette di costine di manzo, morbide dentro e caramellate fuori… e poi le frittelle di cipollotto e frutti di mare, croccanti da morire. Tutto accompagnato da soju in bicchierini minuscoli. Solo a pensarci. Ah, a proposito: chi si è accreditato quest’anno per la Corea del Sud? So per certo che Cho Jin-hwan c’è, questa sera dopo i lavori del convegno devo incontrarlo, Anna ha preparato il ragù.»
«Non aspettarti soffiate da me, posso solo suggerirti di non perdere la riunione nella sala delle Colonne, inizierà a metà pomeriggio, è a porte chiuse ma per te non dovrebbe essere un problema, troverai sicuramente un modo per sgattaiolare dentro.»