Se parliamo di welfare aziendale, termine che da qualche anno si sta diffondendo sempre più anche nelle realtà di minori dimensioni, non possiamo non associarlo a un'iniziativa di crescente efficacia sia per la fase di recruiting (attrazione) sia per quella di retention (mantenimento) del personale.
Non occorre dilungarsi, in quanto già oggetto di numerosi approfondimenti, su come le dinamiche lavorative siano state impattate dal Covid, che ha prepotentemente portato alla ribalta lo smart working e altre modalità di conciliazione vita-lavoro, ridisegnando l'intera relazione impresa-collaboratore. Si tratta di cambiamenti, perlopiù irreversibili, con i quali le aziende di ogni dimensione devono confrontarsi quotidianamente se vogliono rimanere competitive nel complesso e dinamico mercato del lavoro.
Il welfare aziendale è quindi un concetto ampio e variegato, alimentato da quella miriade di iniziative che un'azienda può mettere in campo a favore dei propri collaboratori e che costituisce un elemento fondamentale delle politiche ESG, la "S" (Social) appunto. Detto questo, è bene però non girare troppo intorno alla questione: il datore di lavoro sa che, nella strutturazione della propria strategia di welfare aziendale, vi sono delle leve molto efficaci per l'engagement del personale, e sono quelle che più direttamente si traducono in un beneficio diretto e tangibile. In altre parole, i fringe benefit, compensi erogati ai collaboratori sotto forma di beni e servizi, la cui maggiore o minore efficacia dipende in gran parte dal trattamento fiscale, che ne determina il valore netto nelle tasche del lavoratore. Da questo punto di vista, la normativa fiscale è storicamente complessa, ingarbugliata e, negli ultimi anni, pure "lunatica".
Dagli aggettivi utilizzati, è evidente che non ho velleità di trattazioni tributarie (su Blast ci sono professionisti in grado di approfondire il tema), ma una visione dal lato azienda-collaboratore è doverosa. In primis, la soglia entro la quale i beni e servizi erogati in natura dall'impresa non sono soggetti a imposizione fiscale e contributiva per il dipendente: pre-Covid era di 258,23 euro, poi passata a 516,46 euro negli anni Covid 2020-2021, tornata a 258,23 euro nel 2022, salita a 3.000 euro nel 2023 (anche a causa della fiammata inflattiva) e ridiscesa a 1.000 euro nel 2024 (che diventano 2.000 se il dipendente ha figli a carico). Per il 2025 sono confermati i valori del 2024. Questa "altalena" ovviamente non permette né al lavoratore né all'impresa di valorizzare puntualmente nel tempo il beneficio negoziato, ciascuno per i propri obiettivi. Senza trascurare, poi, le implicazioni pratiche, quali dover recepire e tracciare le situazioni familiari del dipendente o effettuare conguagli ex post in busta paga se le franchigie, come accaduto, vengono variate in corso d'anno.
Nota a margine: nel 2025 scompare la possibilità, per l'azienda, di conferire al lavoratore un bonus carburante di 200 euro esente da imposizione fiscale per quest'ultimo (ma nel 2023 e 2024 imponibile dal punto di vista contributivo), nonostante non sembri esserci stato un crollo del prezzo dei carburanti.
Per rimanere in tema, un altro benefit impattato è l'auto aziendale concessa in uso promiscuo al dipendente, forse il benefit per antonomasia, sul quale si potrebbero aprire diversi capitoli. Il primo, che costituisce un'eccezione a livello europeo, è dato dall'indetraibilità dell'IVA, pari al 60 pe cento su tali veicoli in uso promiscuo, frutto di una deroga che da anni l'Italia chiede e ottiene a livello comunitario e la cui prossima scadenza è il 31 dicembre 2025. Un onere non di poco conto per le aziende, che, immaginiamo, verrà rinnovato a favore delle casse statali. Il benefit auto è stato poi ulteriormente colpito, nell'ultimo biennio, con il ricalcolo del fringe benefit a favore dei mezzi "green": prima ha penalizzato le auto a maggiore emissione di CO2, mentre da quest'anno il discrimine è sulla base dell'alimentazione. La distorsione che è subito saltata all'occhio è quella per cui, con questa norma, una Fiat Panda con motore termico valorizza un fringe benefit doppio rispetto a una Porsche elettrica. A parte queste iperboli (su cui molto si potrebbe discutere in termini di equità), va detto che, ad oggi, la mancata diffusione delle auto elettriche non può essere certo incentivata da queste azioni, quando ciò che manca sono infrastrutture, evoluzione tecnologica dei mezzi e prezzi competitivi.
Altro benefit che si può portare ad esempio sono i buoni pasto, che oggi non concorrono al reddito del lavoratore entro gli 8 euro al giorno (se in forma digitale). I vecchi ticket restaurant, che fino a qualche anno fa erano spesi per 2/3 per il pranzo, sono in gran parte utilizzati per fare la spesa al supermercato, complice la possibilità di cumularne fino a otto contemporaneamente. A riprova del nuovo ruolo assunto da questo benefit, vi è il fatto che essi vengono riconosciuti al lavoratore anche nelle giornate di smart working. Complice anche un mercato di emittenti ticket concentrato, gli esercenti che li accettavano sopportavano oneri commissionali fino al 20 per cento; così, in seguito a numerose proteste, è stato imposto un tetto al 5 per cento (adeguandoli a quanto già accade nel pubblico). Tale riduzione dei ricavi per gli emittenti preannuncia un'ulteriore concentrazione del mercato dei buoni pasto, con gli oneri che saranno, in tutto o in parte, ribaltati sulle imprese, per le quali l'adozione sarà meno conveniente.
Dopo questa carrellata esemplificativa, si può agilmente concludere che, negli ultimi anni, sia certamente mancata una visione pluriennale del legislatore in merito alla fiscalità e alla regolamentazione dei benefit aziendali, probabilmente relegati ad assestamenti di bilancio last minute. Ci si dimentica, probabilmente, che se essi incidono sul bilancio statale per poche decine di milioni, l'indeterminatezza e l'incertezza rischiano di influire, invece, non poco sulle strategie (e sulle tasche) di lavoratori e imprese.