Un giurista scrupoloso che si dedicasse alla catalogazione delle deroghe legislative allo Statuto dei diritti del contribuente si troverebbe dinanzi a un compito titanico. Quel che è certo è che, in questa analisi, il primato dell’articolo più frequentemente aggirato spetterebbe senza dubbio all’articolo 3 (della Legge 212 del 2000).
Quest’ultimo stabilisce princìpi cardine del sistema tributario, sancendo il divieto di retroattività delle disposizioni fiscali, l’impossibilità di imporre adempimenti con scadenze anteriori ai sessanta giorni dall’entrata in vigore delle norme e, soprattutto, il divieto di prorogare i termini di prescrizione e decadenza per gli accertamenti tributari.
Princìpi che, in un ordinamento fondato sul diritto, dovrebbero essere intoccabili. Eppure, nei quasi venticinque anni di vita dello Statuto, il numero di deroghe all’articolo 3 non si contano.
È inevitabile chiedersi quali siano le motivazioni e le circostanze eccezionali che giustifichino tale pratica. In alcuni contesti emergenziali, come quello della pandemia, la necessità di derogare a principi consolidati potrebbe trovare una sua ratio. Tuttavia, l’eccezione si è trasformata in regola, con un’abitudine alla “deroga facile” che segna in modo costante le manovre finanziarie del Paese.
La questione non è meramente tecnica, ma investe il tema della credibilità dello Stato nei confronti dei cittadini. Come si può pretendere il rispetto delle regole quando queste vengono costantemente modificate e piegate a esigenze contingenti, spesso di bilancio? Se lo Statuto dei diritti del contribuente può essere derogato con tanta facilità, la sua efficacia si riduce a poco più di un enunciato di buone intenzioni.
Non si tratta di dettagli normativi o tecnicismi giuridici. È il rapporto di fiducia tra Stato e contribuente a essere in gioco, un rapporto già fragile e ulteriormente minato da una normativa mutevole e imprevedibile. La necessità di una soluzione è evidente, ed è forse il momento di ipotizzare strumenti innovativi per garantire una maggiore stabilità a principi che dovrebbero essere considerati intoccabili.
Anche se la soluzione più efficace sarebbe probabilmente quella di realizzare un nuovo rango normativo per lo Statuto, rimanendo, tuttavia, “con i piedi per terra”, si potrebbe invece immaginare che le deroghe allo Statuto possano essere attuate solo chiamando in causa altri interessi meritevoli di tutela costituzionale.
Il riferimento è chiaramente alla sentenza n. 63 del 2019 della Corte Costituzionale, laddove la Corte afferma, in relazione alla deroga al favor rei, che la irretroattività della lex mitior può giustificarsi solo in presenza di “ragioni cogenti di tutela di controinteressi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo vaglio positivo di ragionevolezza, alla cui stregua debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius”
Allo stesso modo si potrebbe ragionare che la deroga ad una norma dello Statuto del contribuente non possa essere fatta tout court dal legislatore, ma necessiti di una “giustificazione costituzionale” che la deroga deve espressamente richiamare.
In questo modo lo Statuto dei diritti del contribuente cesserebbe (si spera) di essere un elenco di princìpi facilmente aggirabili e diventerebbe un presidio effettivo di tutela per i cittadini. Non si tratta solo di una questione di principio, ma di un’esigenza concreta per la tenuta del sistema fiscale. Ogni deroga allo Statuto alimenta sfiducia e disillusione, due elementi che minano la legittimità stessa dell’azione tributaria. Ignorare questo problema non è più un’opzione praticabile.