Una norma interpretativa senza dirlo: la proroga degli 85 giorni verso l’epilogo, tra interpretazione autentica e silenzi eloquenti
di Simona Baseggio e Barbara Marini
Con l’approvazione definitiva del decreto legislativo “correttivo” della scorsa settimana, cala il sipario su una delle questioni più controverse del contenzioso tributario post-pandemico: la proroga di 85 giorni dei termini di decadenza per la notifica degli atti impositivi da parte dell’Agenzia delle Entrate, disposta dall’articolo 67, comma 1, del Dl 18/2020 per il periodo 8 marzo - 31 maggio 2020.
Per lungo tempo è rimasta infatti irrisolta una questione di non secondaria rilevanza: quella della natura della sospensione. Doveva intendersi come una mera sospensione “statica” dei termini durante il periodo di emergenza, oppure essa doveva considerarsi “dinamica”, con effetto prorogante “a cascata” anche negli anni successivi, finché non si esaurissero le annualità i cui termini di accertamento fossero pendenti nel 2020?
Nel silenzio normativo si è consolidata in giurisprudenza e dottrina una dicotomia interpretativa, acuita dall’assenza di una norma chiarificatrice. Ora, a distanza di cinque anni dall’esplosione dell’emergenza sanitaria, il legislatore torna sulla questione con una disposizione che, pur evitando di nominarla come tale, si presenta a tutti gli effetti quale norma di interpretazione autentica.
L’articolo 22 del decreto correttivo afferma che «a decorrere dal 31 dicembre 2025, la sospensione dei termini di cui all’articolo 67, comma 1, del decreto-legge 17 marzo 2020 [...] non si applica agli atti recanti una pretesa impositiva, autonomamente impugnabili dinanzi agli organi della giurisdizione tributaria, emessi dall’Agenzia delle entrate». Il legislatore dichiara (indirettamente) quindi che, fino a tale data, la sospensione ha continuato a spiegare i suoi effetti, giustificando implicitamente la notificazione di atti accertativi oltre il termine ordinario, entro gli 85 giorni aggiuntivi.
Ciò non può che implicare una presa di posizione definitiva: per il quinquennio pandemico e post-pandemico, la proroga si è intesa operante anche nelle annualità successive al 2020. Tuttavia, si tratta di un chiarimento che giunge sotto mentite spoglie. Lo Statuto del Contribuente, all’articolo 1, comma 2, stabilisce infatti che «l'adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica» (anche se la Cassazione in più occasioni ha ritenuto di fatto superflui tali “requisiti”).
Il legislatore ha omesso tanto la qualificazione formale dell’intervento quanto l’utilizzo dello strumento normativo tipico. Eppure, il risultato che produce l’articolo 22 è esattamente quello proprio delle norme di interpretazione autentica: chiarisce il significato di una disposizione previgente, con effetti ex tunc sull’operatività della sospensione.
Il rischio che ne deriva è tutt’altro che teorico. Tutti quei contribuenti che hanno fondato le loro difese sul venir meno del potere impositivo per intervenuta decadenza, calcolata sulla base di una mancata applicazione “a cascata” della sospensione, si trovano ora a fronteggiare un revirement normativo mascherato da norma ordinaria. Si tratta di una soluzione che, pur coerente con l’intento di evitare incertezze e conflitti giurisprudenziali, solleva più di un dubbio sul piano della coerenza con i principi di legalità e irretroattività sanciti dallo stesso ordinamento tributario.
Ancora più interessante è il silenzio che la disposizione mantiene rispetto agli enti locali. L’articolo 22 si riferisce unicamente agli atti «emessi dall’Agenzia delle entrate», lasciando fuori dal perimetro applicativo la fiscalità locale. Tale esclusione non pare essere frutto di dimenticanza. Al contrario, appare coerente con un orientamento interpretativo sempre più consolidato, secondo cui la sospensione disposta dal Dl 18/2020 non ha mai trovato applicazione automatica per i tributi comunali.
La giurisprudenza di merito ha infatti riconosciuto la specialità del sistema impositivo locale, chiarendo che la sospensione COVID valeva solo per gli atti in scadenza nell’anno 2020, ma non si estendeva alle annualità successive, come nel caso dell’IMU 2019 notificata nel 2025. Tribunali tributari come quelli di Milano, Latina e la CGT Lombardia hanno escluso esplicitamente ogni effetto prorogante generalizzato per gli enti locali. Inoltre, anche il dato normativo, in particolare l’articolo 157, comma 7-bis, Dl 34/2020, conferma che le entrate degli enti territoriali sono state escluse dalla portata delle sospensioni previste per le entrate erariali.
Tale diversificazione trova ulteriore conferma nell’articolo 22 del decreto correttivo, che, nel voler “sigillare” l’interpretazione pro-fisco degli 85 giorni, limita l’ambito soggettivo della norma alla sola Agenzia delle Entrate. È un silenzio che parla, e che consente di affermare che, per la fiscalità locale, la proroga non ha mai spiegato effetti oltre il 2020.
In definitiva, ci troviamo di fronte a una disposizione che, pur travestita da norma ordinaria, non può che leggersi come una disposizione di interpretazione autentica: il legislatore ha voluto chiudere una partita rimasta per troppo tempo aperta. Ma lo ha fatto con un colpo di mano, destinato a suscitare riflessioni critiche sul piano della legittimità formale, e a confermare, per converso, che proprio in ciò che non viene detto si possono talvolta cogliere i chiarimenti più eloquenti.