Tracce di umano - SPECCHI DIGITALI – RACCONTI E RIFLESSIONI SULL’UMANITÀ RIFLESSA NELLE SUE MACCHINE
di Gabriele Silva
C’è un’immagine che mi torna spesso alla mente.
È quella di un collega che, in riunione, dice: «In fondo siamo tutti intercambiabili».
Detto con leggerezza, quasi con ironia. Ma quella frase conteneva un veleno sottile: l’idea che il lavoro moderno ci stia trasformando in funzioni, ruoli, organi di un organismo più grande.
Che l’identità sia ormai un dettaglio marginale, un accessorio estetico che possiamo cambiare in base al contesto.
Ripensandoci, la frase suona incredibilmente vicina a ciò che Donna Haraway scrisse nel suo Manifesto Cyborg del 1985: una delle opere più visionarie del Novecento, capace di anticipare di decenni ciò che stiamo vivendo oggi nelle aziende, nei team, nelle relazioni professionali.
Haraway immaginava un mondo in cui il confine tra essere umano e macchina sarebbe diventato sempre più sottile, fino a sfumare.
Non per sostituire l’umano, ma per contaminarlo.
Il cyborg non era un robot: era una creatura ibrida, fluida, che non apparteneva più a una sola categoria.
Né uomo né donna.
Né organico né artificiale.
Né naturale né culturale.
Un’identità attraversata da più identità.
Oggi, nel lavoro, siamo proprio lì.
Nei contesti professionali si parla spesso di “ruoli ibridi” e “competenze trasversali”.
Ci viene chiesto di essere analitici e creativi, empatici e veloci, tecnici e comunicativi.
Di essere tutto.
O almeno, di sembrarlo.
La figura del lavoratore come entità unitaria non esiste più: siamo avatar, profili, maschere.
Cambiamo linguaggio in base al canale, personalità in base alla riunione, tono in base a chi abbiamo davanti.
La nostra identità professionale è un cyborg: metà sincera, metà performata.
Haraway direbbe che non c’è nulla di male nell’ibridazione.
È inevitabile.
È il futuro.
Ma c’è un rischio che, nel lavoro, sentiamo sulla pelle: più ci adattiamo, più perdiamo i contorni.
Più diventiamo poliedrici, più rischiamo di diventare invisibili.
Il corpo, nel Manifesto Cyborg, non è più soltanto un corpo.
È un’interfaccia.
Una superficie politica, sociale, culturale, tecnologica.
Nel lavoro accade lo stesso.
Il corpo che lavora non è più solo carne e ossa: è uno sfondo Zoom, un tono di voce in cuffia, un avatar su Teams, un badge che traccia lo spostamento.
E quando il corpo non si vede, diventa solo dati: produttività oraria, obiettivi raggiunti, KPI.
In questa smaterializzazione continua, che fine fa ciò che di umano resta davvero?
La stanchezza.
I limiti.
Il genere.
La sensibilità.
La fragilità.
La creatività che non nasce a comando.
Sono tutte “tracce di umano” che il lavoro moderno tenta di levigare, normalizzare, digitalizzare.
Haraway, nel suo manifesto, non era pessimista.
Anzi.
Vedeva nel cyborg la possibilità di emanciparsi dai ruoli rigidi, dalle identità imposte, dai confini che incasellano e limitano.
Ma ci avverte anche che, per non essere inghiottiti dal sistema, bisogna saper restare imperfetti.
Imperfetti come gli errori di scrittura che fanno perdere tempo.
Come un’interruzione in una riunione.
Come un dubbio espresso quando tutti annuiscono.
Sono proprio quelle imperfezioni — quei pixel fuori posto — a ricordarci che siamo più di un profilo professionale.
Sono ciò che ci ancora al reale.
Forse il punto non è scegliere tra umano e macchina.
È capire come restare umani dentro la macchina.
Come mantenere una forma riconoscibile mentre il lavoro ci chiede di essere liquidi, adattabili, replicabili.
Come continuare a lasciare, in ogni nuova ibridazione, una traccia di noi.
Non una performance.
Non un ruolo.
Una traccia.


