In un Regno lontano viveva un’illustre istituzione conosciuta come Suprema Corte di cassazione. Il suo compito, almeno in teoria, era sacro: garantire la nomofilachia, ovvero la garanzia dell’uniforme interpretazione della legge e dell’unità del diritto oggettivo nazionale.
Ma nella contea del Fisco, le cose non andavano proprio così. La Suprema Corte non si limitava a custodire le leggi: le forgiava. Il diritto non veniva solo interpretato, quanto piuttosto veniva reinventato ogni giorno. Era un po’ come se il custode di un museo, anziché proteggere le statue, si mettesse a scolpirne di nuove.
Un giorno, il giovane avvocato Esiodo, con il suo codice tributario sottobraccio e un filo di speranza nel cuore, si presentò dinanzi alla Corte per difendere un contribuente vessato da una cartella di pagamento per un’imposta che, secondo la normativa del Regno, non avrebbe dovuto in realtà pagare, ma che invece si era arrampicata sulla vita del malcapitato come una pianta infestante. La sala era imponente, con enormi scaffali ricolmi di volumi giuridici e frasi così lunghe che avrebbero potuto essere lette come romanzi d’appendice.
«Onorevoli giudici», iniziò Esiodo, con voce diventata improvvisamente sicura, «la norma parla chiaro: il mio assistito non è soggetto a questa imposta perché…» Non fece in tempo a finire la frase che il Giudice Supremo, un uomo dalla toga imponente e dallo sguardo severo, accarezzando il suo martelletto come fosse una bocciarda pronta a colpire un blocco di marmo, lo interruppe bruscamente «Silenzio!» tuonò «Avvocato, la legge va interpretata secondo i principi superiori!».
«Ma… appunto… il principio di legalità…» balbettò Esiodo.
Il Giudice Supremo sorrise con condiscendenza, come un maestro con un allievo ritenuto particolarmente tardo, «Principio di legalità? Oh, giovane ingenuo! Qui pratichiamo la nomofilachia creativa!».
E così, con un battito di ciglia, la Corte pronunciò una sentenza di trenta pagine capace di appoggiarsi sulla testa del contribuente come una spada tagliente.
Esiodo sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Si voltò e vide il suo assistito, un povero mercante, che si fece bianco in viso, e con appena un filo di voce, stupito per quanto stava accadendo in quell’aula, senza neanche la certezza che quello sentisse e men che meno capisse, riuscì solo a dire «Pareidolismo tributario».
Un vecchio giurista in pensione, seduto nell’ultima fila dell’aula, sospirò profondamente, sussurrando al suo vicino: «Questa non è più nomofilachia, ma è nomopoiesi sfrenata!».
«Nomopoiesi?!?» chiese il giovane avvocato.
«Sì, figliolo. È l’arte di creare il diritto. Una condizione che si verifica quando l’interpretazione delle norme da parte della giurisprudenza assume un carattere innovativo o addirittura sostitutivo rispetto al ruolo tradizionale del legislatore».
Nel frattempo, la Corte, passata velocemente ad esaminare la successiva causa iscritta a ruolo, aveva già sfornato un’altra sentenza che ridefiniva il concetto di “ristretta base partecipativa” in modo talmente fantasioso che persino Escher ne sarebbe rimasto perplesso.
Esiodo scosse allora la testa e uscì turbato dall’aula, mentre pensava tra sé: «Forse dovrei aprire una fonderia, più che uno studio tributario…».
E mentre i contribuenti continuavano a navigare in un mare di giurisprudenza sempre più mutevole, la Suprema Corte, fiera e imperturbabile, continuava a muoversi con disinvoltura nella propria officina nomopoietica, mentre il diritto smarriva quella certezza che dovrebbe invece caratterizzarlo.