Spilli tributari - La solitudine delle pagine pari: appello erariale in stile dadaista
di Marco Cramarossa
C’è chi fa ricorso per saltum alla Cassazione, e chi invece lo fa per saltum… di pagine dispari. La differenza non è solo di tecnica processuale, ma di geometria esistenziale: il primo è una “scorciatoia” consensuale tra le parti in causa, prevista dal legislatore; il secondo è invece un rompicapo degno della celebre “Settimana Enigmistica”.
Sì, perché l’Agenzia delle Entrate è riuscita nell’impresa di notificare un atto di appello con tutte le pagine pari e nessuna dispari. Un gesto di creatività involontaria che meriterebbe un premio: “l’atto più minimalista dell’anno”. L’ufficio avrà pensato che, tra tagli di spesa e spending review, anche le pagine siano diventate una variabile di bilancio. Oppure, più filosoficamente, che la verità si trovi negli spazi bianchi, come insegnava Mallarmé, ovvero l’uso del bianco come equivalente visivo del silenzio della voce, al fine di esaltare l’essenzialità della parola e indirizzarla verso l’assoluto.
I giudici di secondo grado, poverini, non hanno potuto che constatare la frammentarietà dell’atto. Frammentarietà è un eufemismo: più che un ricorso, sembrava un libro di filosofia analitica senza i capitoli dispari, o un romanzo di Italo Calvino in cui il lettore resta a metà frase. E allora via con l’inammissibilità per violazione dell’articolo 53 del Dlgs. 546/1992. Del resto, come difendersi da un atto che sembra scritto in stile dadaista?
Il bello è che l’Agenzia ha insistito: no, guardate che il senso si capisce lo stesso. Una specie di esercizio di cloze test: “riempi gli spazi vuoti e indovina il motivo d’appello”. Non solo, ma (sempre l’Agenzia) ha avuto l’ardire di invocare la nullità della sentenza di appello in quanto viziata da motivazione apparente. La Cassazione ha fatto però inevitabilmente spallucce: se manca la metà del testo, il giudice non è tenuto a fare il cruciverba al posto del ricorrente.
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