SPILLI TRIBUTARI - Compensazione tra retisti: l’“accollo” che non osa dire il suo nome
di Simona Baseggio e Barbara Marini
Ci sono istanze d’interpello che raccontano, più di un saggio accademico, il modo in cui il contribuente medio si barcamena tra esigenze gestionali, vincoli operativi e una normativa fiscale sempre più impermeabile alla logica delle relazioni economiche contemporanee.
È il caso della recente risposta n. 246/2025, in cui una rete di imprese con soggettività giuridica tenta – con metodo, coerenza e forse un po’ di ingenuità – di elaborare un modello operativo che consenta ai soggetti aderenti di collaborare nella gestione dei tributi, compensandoli senza cadere nel tranello dell’accollo vietato. L’idea è semplice nella struttura quanto ardita nella pretesa: un retista A paga direttamente i debiti tributari del retista B, mettendoli in compensazione con i propri crediti fiscali disponibili, con il coordinamento della Rete, ma senza che quest’ultima trasmetta gli F24 o assuma obbligazioni. Il tutto viene incorniciato in una architettura contrattuale formalizzata: appalti, distacchi, regolamenti tecnici, tracciabilità delle operazioni. Si direbbe uno sforzo onesto di mettere ordine dove il sistema crea confusione. Ma l’Agenzia, fedele al proprio repertorio, non si lascia distrarre dalle premesse organizzative e cala l’argomento definitivo: è accollo, e per di più con compensazione. Traduzione: vietato. La chiusura arriva puntuale, con tutto il repertorio normativo e giurisprudenziale di supporto. L’articolo 17 del D.Lgs. 241/1997, il D.L. 124/2019, lo Statuto del contribuente, e ovviamente la Cassazione, da ultimo con l’ordinanza 3930/2025: tutti a dire che, nel regno del fisco italiano, i crediti si usano solo per i debiti propri. L’altrui debito non si compensa, anche se lo si fa per ragioni funzionali, anche se l’intento non è elusivo, anche se si è nel perimetro di una rete giuridicamente riconosciuta. Niente da fare: la compensazione intersoggettiva è la linea rossa. E una volta oltrepassata, il versamento si considera come non avvenuto, con sanzioni e recuperi in arrivo.
Certo, lo sforzo ricostruttivo dell’istante è quasi ammirevole: si cerca di costruire un meccanismo di compensazioni incrociate tra retisti che, a ben vedere, è una forma di accollo travestito. Ma l’originalità terminologica non basta a mutare la sostanza: l’operazione resta quella che la normativa vieta, e l’Agenzia lo rileva senza nemmeno dover argomentare troppo. E del resto, non serve molto per smascherarla: un soggetto che paga debiti altrui usando i propri crediti fiscali, anche se lo fa nel quadro di una rete giuridicamente riconosciuta, realizza un accollo con compensazione, con tutto il corredo di nullità, inammissibilità e sanzioni che ne derivano. Il modello delineato si muove dentro un confine già tracciato, già esplorato, e già vietato. Il risultato, in fin dei conti, è l’ennesima riproposizione di uno schema ben noto: si cambia il lessico, si raffina la forma, ma la sostanza resta la stessa. E nel fisco italiano, la sostanza – almeno su questo fronte – continua a prevalere. Del resto, a voler essere onesti, nemmeno l’istante poteva davvero attendersi una risposta diversa: per sostenere che non si tratti di accollo serviva più coraggio che argomentazione. E forse, a ben vedere, più speranza che convinzione.


