SPILLI TRIBUTARI - Carte multiuso e contribuenti “usa e getta”: storie dal sottosuolo della prassi
di Marco Cramarossa
Con la risposta a interpello n. 235/2025 dello scorso 10 settembre l’Agenzia delle Entrate ha scritto l’ennesimo capitolo della infinita saga della prassi fiscale italiana, ormai sempre più spesso costellata da un continuo stop-and-go in cui il contribuente si trova costretto a riscrivere procedure, rielaborare fatture e, soprattutto, a fare i conti con la precarietà di regole che mutano più velocemente del prezzo alla pompa del carburante.
Il tema, in apparenza tecnico, riguarda le carte carburante prepagate. Uno strumento semplice: versi un importo, ottieni una card, fai rifornimento. L’Agenzia delle entrate è però riuscita a complicare anche questo meccanismo elementare.
Per anni la prassi ufficiale, sancita dalla circolare 8/E del 2018, ha sostenuto che la ricarica della carta fosse già un’operazione rilevante ai fini IVA. Ne conseguiva l’obbligo di emettere fattura, registrare e versare l’imposta. Un’impostazione che ha generato migliaia di adempimenti e che le imprese, in nome della certezza giuridica e fiscale, hanno diligentemente (e)seguito.
Ora, con la risposta 235/2025, l’Agenzia afferma che quella lettura non è più valida. Anzi, non lo era nemmeno allora, perché il Dlgs. 141/2018, che - in attuazione della direttiva comunitaria in materia di trattamento dei buoni-corrispettivo - ha introdotto gli articoli da 6-bis a 6-quater del DPR 633/1972, avrebbe dovuto già orientare diversamente l’interpretazione. Il risultato è che la carta carburante non è buono “monouso” ma “multiuso”, e dunque l’IVA (ai sensi dell’articolo 6-quater) si applica solo al momento del rifornimento, non al momento della ricarica della carta prepagata.
La domanda, inevitabile, è perché servono sette anni per accorgersi di un errore di qualificazione. Nel frattempo, le imprese hanno emesso e registrato fatture, versato imposta, adeguato software e procedure. Oggi, la stessa Amministrazione che ha imposto quella linea riconosce che era sbagliata e invita i contribuenti a stornare le fatture con note di variazione. Dove non sia più possibile, viene evocato l’articolo 30-ter del decreto IVA, ossia il rimborso per imposta non dovuta, appellandosi al legittimo affidamento.
In altre parole, l’Agenzia sembra dire “abbiamo dato un’interpretazione, vi siete adeguati, ma ora cambiamo idea. Non vi preoccupate, potete correggere tutto. Se ci perdete tempo e risorse, fa parte di quel magnifico gioco le cui regole le scriviamo noi e voi… obbedite!”.
Il paradosso è evidente. La certezza del diritto, tanto invocata nei convegni e nei documenti programmatici, nelle deleghe di legge e qualche volta pure nelle stesse norme, si dissolve quando il contribuente deve correre dietro a posizioni di prassi che cambiano a distanza di anni. Le imprese che hanno rispettato pedissequamente la Circolare del 2018 si ritrovano oggi con una mole di registrazioni da rivedere, note di credito da emettere, richieste di rimborso da predisporre.
E così gli uffici pretendono puntualità nei versamenti, ma non garantiscono la stessa affidabilità nell’interpretazione delle norme. Un asimmetrico rapporto di forze in cui il contribuente deve essere infallibile, mentre l’Amministrazione può serenamente correggersi a posteriori, senza conseguenze, con un ravvedimento a costo zero per la parte pubblica.
Sul piano tecnico, la questione non è banale. La distinzione tra buono monouso e multiuso è stata introdotta proprio per evitare fenomeni di doppia imposizione. Se al momento della ricarica della carta prepagata non è noto il prezzo finale del carburante, che per propria fisiologica attitudine è variabile, è evidente che la tassazione non può avvenire in quella fase. È logico, ed è ciò che l’ordinamento europeo prevede. Ma resta il fatto (grave) che questa ricostruzione non è una novità del 2025, posto che il Dlgs. 141 è del 2018. Possibile che ci siano voluti anni di fatturazioni e versamenti per accorgersene?
La risposta 235/2025 si preoccupa di sottolineare che i contribuenti non sono colpevoli, avendo agito secondo le istruzioni ufficiali. Un riconoscimento doveroso, ma insufficiente. Perché il danno organizzativo e finanziario resta: flussi contabili da rielaborare, richieste di rimborso da predisporre, rapporti con clienti da gestire.
L’episodio, come già commentato in precedenti “Spilli” di Blast, non è isolato. È la manifestazione di un metodo: l’Agenzia interpreta, corregge, si rimangia la parola. Non si tratta di un fisiologico adeguamento all’evoluzione normativa, ma di un vero e proprio zig-zag che lascia sul campo imprese disorientate e consulenti costretti a rincorrere interpretazioni sempre più instabili.
In questo quadro, la disciplina dei buoni carburante è solo un esempio. Domani potrà toccare ad altri strumenti o ad altre agevolazioni. La costante è la stessa, ovvero la difficoltà a garantire continuità interpretativa. In questo scenario, la Risposta 235/2025 rappresenta un segnale preoccupante di come la prassi fiscale italiana rischi di minare la fiducia dei contribuenti. Ogni inversione a U è un colpo alla credibilità del sistema.
Se la certezza del diritto è un valore, allora va tutelata anche contro l’incertezza della stessa Amministrazione. Servono regole chiare, interpretazioni stabili e, soprattutto, la consapevolezza che gli errori non possono essere scaricati interamente sul contribuente. Altrimenti, continueremo ad assistere a questo copione: contribuenti che si adeguano, prassi che si corregge, imprese che sopportano i costi, perché a pagare (per) i ripensamenti della prassi sono sempre i soliti noti.
E allora, più che un sistema tributario, quello italiano somiglia a un gioco dell’oca truccato, dove si avanza solo per tornare alla casella di partenza, con l’unica differenza che qui il dado lo lancia sempre lo stesso giocatore, che (per mero tuziorismo espositivo) non è il contribuente.