Nel corso del Question Time tenutosi presso la Commissione Finanze della Camera, il tema delle società di comodo è tornato in primo piano, con un’interrogazione puntuale volta a chiarire le modalità di recupero dell’IVA per gli anni ancora aperti. Il riferimento era diretto: la sentenza della Corte di Giustizia UE del 7 marzo 2024 (causa C-341/22, Feudi di San Gregorio) ha dichiarato incompatibile con la direttiva IVA la normativa italiana che, in base all’articolo 30, comma 4, della legge n. 724/1994, preclude alle società considerate non operative il diritto alla detrazione.
Secondo la Corte, una simile esclusione automatica, fondata su criteri quantitativi e presuntivi eccede quanto necessario per contrastare frodi ed elusioni. Il diritto alla detrazione può essere negato solo laddove esistano elementi concreti che dimostrino l’abuso o l’assenza di effettiva attività economica. Non basta, quindi, non superare un test di operatività: occorre provare che la società abbia agito al solo fine di ottenere un indebito vantaggio fiscale.
A fronte di una presa di posizione così netta da parte del giudice europeo, ci si sarebbe aspettati, se non una risposta risolutiva, almeno un orientamento operativo. E invece no.
Il contenuto della risposta fornita dal Ministero – su impulso dell’Agenzia delle Entrate – è apparso del tutto inadeguato rispetto alla portata della questione. L’Amministrazione ha preso atto della pronuncia, ma ha affermato di non poter indicare alcuna modalità di recupero del credito IVA per gli anni pregressi, neppure tramite dichiarazioni integrative (soluzione invero proposta dagli interroganti). Tutto viene rinviato a una futura revisione della disciplina, che, allo stato, risulta solo parzialmente avviata e limitata alla revisione dei coefficienti di redditività nel D.lgs. 192/2024.
Il risultato è un cortocircuito normativo: la Corte di Giustizia afferma l’illegittimità del divieto generalizzato di detrazione, ma l’Agenzia delle Entrate si limita a prendere tempo, sostenendo che ogni valutazione è rimandata a una revisione organica non ancora delineata. È una posizione che tradisce una certa resistenza culturale ad allinearsi al diritto europeo, e che rischia di vanificare gli effetti della sentenza. Perché un diritto riconosciuto ma non esercitabile è, nei fatti, un diritto negato.
Il timore, evidente, è quello di dover fronteggiare un’ondata di rimborsi IVA potenzialmente estesi a più annualità. Ma in attesa di una disciplina riformata e di un indirizzo operativo chiaro, i contribuenti restano in una terra di mezzo normativa, dove il diritto è affermato ma il rimedio è negato. L'effetto paradossale è che si riconosce l’illegittimità del divieto generalizzato di detrazione, ma se ne differisce sine die l’efficacia riparatrice. Eppure, proprio la giurisprudenza europea impone non solo la disapplicazione della norma interna incompatibile, ma anche la possibilità per il contribuente di far valere retroattivamente il proprio diritto. L’assenza di una soluzione operativa rischia così di svuotare di contenuto la pronuncia della Corte, trasformando un diritto sostanziale in una promessa priva di strumenti. È auspicabile che il legislatore intervenga al più presto per colmare questo vuoto e definire modalità e termini per il recupero dell’IVA negata, anche attraverso l’istituto della dichiarazione integrativa. In caso contrario, a pagare l’incertezza non sarà l’erario, ma la credibilità dell’ordinamento nel suo complesso.