Smart working e sostenibilità ambientale: la lezione (esemplare) della Banca d'Italia
di Claudio Garau
Secondo un report dell'Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, l'adozione del lavoro agile può incrementare la produttività fino al 15-20 per cento su scala nazionale, ma c'è un altro dato che merita grande attenzione e che impone una riflessione seria nel dibattito - talvolta sterile - sul lavoro agile, fatto (anche) di nostalgie d'ufficio e resistenze culturali. Lo smart working, se ben organizzato, fa bene all'ambiente, alle persone e alle istituzioni. La conferma arriva dalla Relazione sulla gestione e sulla sostenibilità 2024 della Banca d'Italia, che ha quantificato con precisione l'impatto ambientale del lavoro da remoto per i propri dipendenti.
Sono numeri che, in verità, chiamano in causa non solo le aziende, ma anche i decisori pubblici, le istituzioni e, più in generale, la visione di futuro che intendiamo costruire - in aderenza agli obiettivi Green Deal e Agenda 2030. Perché questi numeri parlano chiaro: 4,1 kg di CO2 emessi ogni giorno per ciascun dipendente in presenza, contro appena 1,1 kg per chi lavora da casa.
L'analisi ha posto a confronto due tipologie di emissioni, ossia quelle generate dagli spostamenti casa-lavoro e quelle legate ai maggiori consumi domestici indotti dal lavoro agile. Una riduzione drastica, misurata grazie a un progetto di ricerca congiunto con l'Enea, e che non lascia spazio a più interpretazioni: l'impatto ambientale della presenza in ufficio è quasi quadruplo rispetto al lavoro da remoto. La differenza è insita nei combustibili fossili bruciati per il trasporto privato, ancora oggi ampiamente prevalenti nonostante gli sforzi normativi per incentivare la mobilità sostenibile.
Non è allora solo una questione di comfort o di maggior facilità di gestione del rapporto lavoro-vita privata. Ma neanche un residuo dell'era pandemica. Lo smart working è oggi uno strumento di politica ambientale. E a dimostrarlo non è una narrazione ideologica, ma l'evidenza empirica.
La svolta green non si limita ai dati numerici: la Banca d’Italia ha attuato un vero e proprio piano di mobilità sostenibile, aggiornando i tragitti casa-lavoro per i dipendenti delle sedi di Roma, Frascati e di sei filiali, e dotando i parcheggi aziendali di 23 torrette per la ricarica rapida di auto elettriche, nonché di postazioni per e-bike e monopattini elettrici. Ciò è perfettamente in linea con il dettato del D.lgs. 257/2016 che, recependo la direttiva 2014/94/UE, ha introdotto misure per lo sviluppo delle infrastrutture di ricarica elettrica. In questo quadro, a ben vedere, l'iniziativa della Banca d'Italia rappresenta una best practice istituzionale da replicare in tutti gli enti pubblici.
In parallelo, il 38 per cento del lavoro viene svolto da remoto, con punte del 42 per cento nell'Amministrazione centrale. Insomma, il lavoro ibrido - le percentuali non mentono - è ormai parte integrante dell'organizzazione e dimostra come sia possibile, anche in una struttura pubblica e tradizionalmente verticale, riprogettare i processi produttivi alla luce della flessibilità.
Ma la vera domanda che andrebbe posta è: cosa aspettiamo a fare di questo modello un esempio diffuso e sistemico, anche fuori dalla Banca d'Italia? La normativa c'è e va rafforzata. In Italia lo smart working è regolato dalle legge 81/2017 (articolo 18-24), modificata più volte nel tempo. Tale normativa, che si applica - in quanto compatibile - anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle PA (articolo 1, comma 2, D.lgs. 165/2001), ne definisce i principi della flessibilità organizzativa, della parità di trattamento e del diritto alla disconnessione. L'accesso al lavoro agile è subordinato a specifici accordi individuali e, nel caso del pubblico impiego, alla valutazione discrezionale del dirigente dell'ufficio competente.
Come dimostra lo studio sopra citato, l'organizzazione flessibile del lavoro - oltre a favorire la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro - migliora l'efficienza energetica in linea con i principi dell'articolo 9 della Costituzione, che tutela l'ambiente, e dell'articolo 41, che richiama – almeno implicitamente - la responsabilità sociale d'impresa. E taglia i costi operativi, perché ridurre la presenza fisica in ufficio significa meno spese per affitti, utenze e consumi.
Lo abbiamo appena accennato, serve un passo in più. Dettagliatamente e puntualmente, occorrebbe ad esempio integrare la generalità dei Ccnl – ove effettivamente possibile – con livelli minimi garantiti di smart working, sia in termini di giorni mensili sia di tutele specifiche per la salute e il benessere del lavoratore (ad es. diritto alla disconnessione, formazione obbligatoria digitale, ecc.).
Ma sostenibilità ambientale tramite smart working significa anche puntare con decisione all'adozione volontaria, da parte dell'imprese, di certificazioni ambientali o organizzative legate al lavoro agile, con eventuale valore premiante in bandi, appalti e finanziamenti pubblici, ossia attestati di buone pratiche ambientali (ad es. riduzione delle emissioni legate agli spostamenti dei lavoratori grazie allo smart working) o buone pratiche organizzative in tema di gestione del lavoro a distanza (ad es. politiche inclusive, flessibilità reale, ecc.).
Non solo. La leva per il cambiamento può dipendere da una rete di sgravi contributivi specifici, come pure dall'introduzione di incentivi fiscali che rendano attrattivo e duraturo lo smart working. Le possibilità sono diverse: si pensi ad esempio a un possibile potenziamento del credito d'imposta assegnabile alle aziende che investono in tecnologie digitali, software collaborativi e arredi ergonomici per il lavoro da casa, oppure a una eventuale superdeduzione del costo del lavoro da remoto, specie in aree interne o comuni montani, per favorire il ripopolamento e ridurre l'emigrazione giovanile.
Sempre nell'ottica del risparmio “virtuoso” di cui è prova l'analisi della Banca d'Italia, andrebbe letto altresì un eventuale varo di sconti sui premi assicurativi Inail legati alla riduzione del rischio infortunistico per chi lavora da casa. E, in una dimensione territoriale, contribuirebbero all'indirizzo generale del sostegno dei costi dello smart working (ad es. per l'acquisto di pc, tablet o per la formazione digitale dei dipendenti) anche i voucher ad hoc per le PMI e i contributi a fondo perduto (previsti da alcune Regioni).
Ma le amministrazioni locali potrebbero anche scegliere di finanziare la creazione o il potenziamento di spazi di co-working situati in zone periferiche, o decentrate rispetto ai centri urbani principali. Lo scopo, intuibile, è offrire ai lavoratori da remoto un luogo attrezzato, con connettività e servizi e vicino a casa, evitando di dover andare in ufficio in centro città. In un quadro più ampio, la specifica iniziativa - a ben vedere - potrebbe altresì favorire socializzazione, collaborazione e riduzione del pendolarismo. Ecco perché lo smart working potrebbe certamente entrare ed essere parte integrante dei Piani Urbani della Mobilità Sostenibile (PUMS).
Eppure, nonostante i dati positivi citati in apertura, il rischio è che questa trasformazione sia letta ancora con diffidenza. Alcuni settori, pubblici e privati, tendono a considerare lo smart working una concessione temporanea, un lusso o – peggio – una minaccia alla produttività. Eppure, nel quadro del Green Deal europeo, della strategia Fit for 55 e degli obiettivi di neutralità climatica al 2050, la transizione ecologica non può prescindere da un cambiamento nei modelli organizzativi, in chiave (anche) digitale.
Il lavoro da remoto consente – inoltre – una redistribuzione delle opportunità territoriali, arginando lo spopolamento delle aree interne e favorendo un'economia più diffusa. È una misura coerente con gli indirizzi del PNRR, il quale promuove la digitalizzazione della PA e la sostenibilità del lavoro pubblico. La lezione della Banca d'Italia - quindi - va oltre il dato ambientale ed è un segnale di come le istituzioni, se ben organizzate, possano essere apripista di una innovazione sistemica, fondata su sostenibilità, efficienza e rispetto della persona. Non cogliere questa occasione significherebbe non solo sprecare un'opportunità, ma tradire una responsabilità intergenera