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Fisco

SGUARDI FISCALI D’OLTRECONFINE - Tra eleganza e complessità – Il fisco francese

di Gianluca Iannetti

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Blast
nov 04, 2025
∙ A pagamento
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Entre élégance et complexité

La pioggia scivola lenta sulle vetrate di Malpensa, disegnando scie oblique che si confondono con le luci arancioni del piazzale. È la sera di Halloween e Milano, sotto gli ombrelli, si riempie di piccoli scheletrini e streghette che corrono tra i portici, più attratti dalle pozzanghere che dai dolcetti. Io stringo meglio l’impermeabile, scarpe comode ai piedi — so già che Parigi mi farà camminare.

Il volo per Charles de Gaulle decolla con quell’odore familiare di pioggia e metallo. Destinazione: rivedere Jean Benoît, amico di vecchia data, bretone trapiantato a Parigi da più di vent’anni. Ci siamo conosciuti in un campeggio nel nord della Spagna, durante un’estate di università. Lui studiava economia alla HEC Paris, io già mi perdevo tra codici tributari e tramonti iberici. Da allora ci vediamo ogni quattro o cinque anni: incontri brevi, intensi, pieni di ironia e memoria.

Con JB — come lo chiamo da sempre — il tempo non è una linea, ma una curva che ritorna sempre al punto di partenza.
Ogni nostro incontro ha qualcosa delle canzoni di Guccini:

“Auto ferme ci guardavano in silenzio,
vecchi muri proponevan nuovi eroi...”

Arrivo tardi. Un taxi silenzioso mi porta in città. Parigi, anche sotto la pioggia, conserva quella capacità di accoglierti con una certa indifferenza aristocratica. Il mio piccolo hotel nel Quartiere Latino è identico a com’era: corridoi stretti, moquette consumata, profumo di cera e carta vecchia. In camera non ho il tempo di posare la valigia: mi addormento in cinque secondi netti.

Al mattino, JB mi sveglia con la puntualità di chi vive ancora in Bretagna, nonostante l’indirizzo parigino. Arriva con una vecchia Peugeot PX10, caschetto d’ordinanza e uno zainetto Millet che sembra sopravvissuto a mille escursioni. Mi saluta con un sorriso largo e una stoccata sportiva: “Cinque a zero, finale di Champions! Ti ricordi?”.
“Allez Marseille!”
rispondo, tra le risate. Ci abbracciamo come si fa tra vecchi amici che si sono raccontati la vita a capitoli alterni.

Facciamo colazione al Café de Flore, nel cuore del Quartiere Latino: croissant burrosi, caffè lungo e chiacchiere sul mondo che cambia. Parigi si sveglia lenta, elegante anche nella fretta. Decidiamo di muoverci in metro — la ligne 1 ci porta fino al Bois de Boulogne. Alla Fondation Louis Vuitton, la mostra di Gerhard Richter riempie le sale di luce e silenzio: colori sospesi, superfici che sembrano respirare. Richter, pittore tedesco, ha fatto dell’ambiguità tra realtà e astrazione il suo linguaggio — un po’ come fa il fisco francese, penso tra me e me, oscillando tra chiarezza e complessità.

La giornata passa tra ricordi e ironie, il solito campanilismo con i “cugini d’oltralpe”. Parigi, come sempre, riesce a essere tutto e il contrario di tutto: moderna e conservatrice, cosmopolita e provinciale, elegante e disordinata.
La sera, ci ritroviamo a Montmartre, in un piccolo bistrot di un suo amico. L’atmosfera è calda, il vino di Beaune profuma di frutti rossi e legno. Dopo l’aperitivo, inevitabilmente, il discorso si sposta su politica, economia e — ovviamente — tasse.

Sollevo il bicchiere e butto lì una frase per rompere il ghiaccio:

“Se Atene piange, Sparte non ride.”

JB sorride: “Eppure, da noi, la République continua a inventarsi qualcosa per sopravvivere tra l’eleganza e la complessità.”
È il momento perfetto per capire come funziona davvero il fisco francese, in un Paese che da sempre fa del compromesso tra libertà e struttura la sua arte più raffinata.

Le imposte dirette – tra progressività e contraddizioni

Il cameriere arriva con un piatto fumante di escargot e un calice di vino di Borgogna che profuma di terra e legno.
“Quest’anno andrai ancora a La Réunion in vacanza?” gli chiedo, ricordando le sue estati lontane, tra oceano e vaniglia.

JB scoppia a ridere. “Con le tasse che pago quest’anno? Al massimo un campeggio a Biarritz… se non mi mandano direttamente in Bretagna a raccogliere mele.”

Appoggio il bicchiere e sorrido. “Quante ne paghi esattamente, monsieur le fiscaliste?”
“Abbastanza da potermi permettere solo una bottiglia di buon vino, ma non due,” risponde, alzando il calice. “La France, come sai, ama la progressività. Le aliquote vanno dal 0% al 45% per i redditi più alti, a cui si aggiunge il contributo di solidarietà del 3% o 4% sopra i 250 mila euro. Non ci si annoia mai con l’imposta sul reddito delle persone fisiche.”

“E le addizionali locali?” chiedo, quasi per istinto professionale.
“Quasi nulla,” risponde. “Abbiamo la contribution exceptionnelle sur les hauts revenus, ma la vera differenza la fa il quoziente familiare. Tu lo conosci bene: è il sistema che divide il reddito imponibile per il numero di ‘parti’ del nucleo familiare. Più figli hai, meno paghi. Ma io sono single, quindi… pago tutto.”

Lo guarda scuotendo la testa con una smorfia ironica.
“Quindi il sistema è progressivo, ma anche moralista” dico.
“Esattamente,” replica. “Premia la famiglia, punisce i solitari. Come se la felicità fiscale fosse una questione di stato civile.”

Arrivano altre portate: un boeuf bourguignon denso e profumato, accompagnato da un vino di Beaune che scalda la conversazione.
“Almeno vi consolerete con le tasse societarie” provo a punzecchiarlo.
“Dipende da quale lato del tavolo ti siedi” ribatte. “Il sistema è migliorato: l’aliquota dell’impôt sur les sociétés è scesa progressivamente fino al 25%, ma i vantaggi veri li hanno le PME – le piccole e medie imprese a capitale familiare. Quelle pagano un’aliquota ridotta del 15% fino a 42.500 euro di utili. È il modo francese per proteggere la France du terroir, la piccola impresa che resiste alla globalizzazione.”

“Capisco” rispondo. “Un sistema che redistribuisce, ma protegge le radici.”
“Esatto. Ma se sei una multinazionale o una società a capitale straniero, la musica cambia: la base imponibile è ampia, la burocrazia complicata e le verifiche fiscali… creative.”

“Mi sembra familiare” sorrido. “E per caso avete anche un equivalente della nostra IRAP?”
JB ride di gusto. “Ah, la vostra invenzione più misteriosa! No, niente IRAP alla francese. C’era una volta la Contribution Économique Territoriale (CET), che sostituisce due vecchie imposte locali: la cotisation foncière des entreprises e la cotisation sur la valeur ajoutée. Una sorta di tassa mista tra immobiliare e valore aggiunto. Ma non è un’imposta sul reddito: colpisce la presenza fisica sul territorio, più che l’attività economica in sé.”

“Quindi,” dico, “se ho capito bene, il sistema francese è un patchwork di imposte centrali e locali, con logica redistributiva forte ma anche qualche anacronismo.”
“Perfettamente. È un equilibrio tra solidarietà e stratificazione normativa. Ti senti tutelato e punito nello stesso tempo.”

“Una specie di paradosso esistenziale” commento.
“Esattamente. Ma noi francesi, si sa, abbiamo un talento naturale per l’eleganza anche nella complessità.”

Il cameriere toglie i piatti e lascia il tavolo libero per il formaggio.
JB si versa l’ultimo goccio di vino e sorride: “E pensa che tutto questo, in fondo, serve solo a garantire che lo Stato continui a funzionare… e che noi possiamo lamentarcene con una certa grazia.”

Le imposte indirette – tra eleganza fiscale e accise indigeste

Il cameriere torna al tavolo con un piatto di fromages de terroir: un camembert cremoso, un comté stagionato e una fetta di roquefort che riempie l’aria di un profumo deciso.
“E ora, mon ami, parliamo di ciò che unisce davvero Italia e Francia: l’IVA” dico mentre taglio un pezzo di pane croccante.

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