SGUARDI FISCALI D'OLTRECONFINE - Tra rigore e incentivo – Il modello tedesco
di Gianluca Iannetti
Zwischen Strenge und Förderung
In viaggio verso Monaco
Partiamo da Gallarate che sono passate da poco le cinque del pomeriggio. È uno di quei venerdì di dicembre in cui la luce sembra arrendersi troppo presto, e la pianura lombarda ha quel grigio familiare che ti spinge a cercare altrove un po’ di aria nuova. Siamo in cinque, come ogni anno: una rimpatriata invernale tra amici di lunga data. Ciascuno ha preso la propria direzione nella vita — chi lavora negli eventi, chi è country manager di una multinazionale elettronica, chi dirige vendite nel settore dell’arredo outdoor, chi fa ristorazione — ma almeno una o due volte all’anno ci inventiamo un weekend assieme.
Non abbiamo bisogno di parlarci molto: il viaggio inizia sempre uguale. Battute, musica anni ’90, discussioni sull’Inter o sul Milan, e poi silenzi tranquilli, quelli che solo l’amicizia lunga sa dare.
Scegliamo l’auto, come ai tempi dell’università: “viaggio lento, viaggio vero”. Il Gottardo ci aspetta.
Quando comincia a nevicare siamo già oltre il confine. Prima lievemente, come una polvere bianca sui fari dell’auto, poi in fiocchi grossi che il tergicristallo fatica a spostare. Al tunnel ci infiliamo dentro un inverno così fitto che sembra di attraversare una caverna di ghiaccio.
Usciamo dal versante nord e, come da tradizione, ci fermiamo al primo autogrill svizzero dopo il tunnel. È un rito: stinco, birra, e una battaglia di palle di neve nel parcheggio, che comincia sempre come scherzo e finisce in una guerra totale. Ridiamo come bambini, con il fiato che disegna nuvole nell’aria gelida.
Riprendiamo la strada. Monaco ci chiama.
Arrivo a Monaco – Pensione in Augustenstrasse
Arriviamo in città che sono le undici e mezza passate. Monaco in dicembre è una cartolina nordica: strade pulite, una calma operosa, odore di cannella e salsiccia che esce dai mercatini di Natale ancora mezzi chiusi. Nevica piano, come se la città non volesse disturbare.
La pensione che abbiamo scelto è in Augustenstrasse, in una palazzina anni ’60 senza pretese. Appena entri ti sembra di tornare indietro nel tempo — ma non nella Baviera da cartolina: più DDR, più Germania Est anni ’80, con moquette consumata e luci al neon dall’alone giallastro.
Ci accoglie Hans, sessantacinque anni circa, capelli brizzolati e un maglione a rombi che sembra uscito da una vecchia foto di famiglia. Accanto a lui, una signora energica e diretta: Anna, sua moglie. La coppia perfetta per una pensione bavarese che resiste ai decenni.
«Zimmer für fünf? Ja, natürlich», ci dice sorridendo.
Ci mostra le camere, pulite e spartane come ci aspettavamo. Poi: «Wollt ihr eine HB oder eine Paulaner? Prima di dormire ci vuole una birra di benvenuto.»
Non aspettiamo che ce lo chieda due volte.
Lasciamo i bagagli e ci ritroviamo al piccolo bar dell’albergo. Tavoli di legno, una stufa che scoppietta, qualche vecchia foto del Bayern Monaco alle pareti.
Hans ci porta cinque boccali pieni, la schiuma alta come la montagna che abbiamo appena attraversato. Quando emette lo scontrino, inevitabilmente, gli diamo un’occhiata.
19 per cento. L’IVA tedesca. Umsatzsteuer.
E lì parte la conversazione.
Imposte indirette – Birra, IVA e accise
«Interessante il vostro 19 per cento» dico.
Hans sorride con orgoglio calmo: «Ja, tutto chiaro e semplice. Diciannove per cento normale, sette per cento per cibo, libri, farmaci. Da noi non si scherza con l’IVA.»
Si avvicina Fritz, il figlio: avrà vent’anni, tuta del Bayern Monaco, sorriso un po’ timido. Ci racconta che studia economia, ama l’Italia e non vede l’ora di tornare al Lago di Garda.
Lo prendiamo subito in giro: «Speriamo che l’eliminazione dalla Champions del 2025 non ti abbia traumatizzato troppo!»
Lui fa una smorfia da vero bavarese: «Meglio parlare di IVA, bitte.»
«Allora spiegaci,» dico. «Com’è messa la Germania sulle indirette?»
Fritz entra subito in modalità studente modello: «Il nostro sistema è molto rigido. Fatturazione elettronica obbligatoria già da anni, controlli automatizzati, niente scappatoie strane. Le piccole imprese possono usare un regime semplificato, sì, ma è lineare, trasparente. Non abbiamo quella… come dite voi… giungla di forfettari italiani.»
Ridiamo. Gli amici annuiscono: conosciamo bene la “giungla”.
Hans interviene: «Qui se vendi una birra, la registri. Fine. E se non lo fai, arriva qualcuno a controllare. Molto in fretta.»
«E le accise?» chiedo.
Hans alza gli occhi al cielo, come se gli avessi chiesto dei suoceri: «Combustibili, tabacco, alcol… tutto tassato, e tanto. Ma rispettando le regole europee. Niente improvvisazioni.»
«Quindi anche da voi il futuro sarà: niente fumo, auto elettrica e birra analcolica?»
Fritz ride: «Kein Bier ohne Steuer. La birra senza tasse non esiste. Nemmeno in Baviera.»
Beviamo, ridiamo, e ci sentiamo — per un momento — tedeschi anche noi.
È tardi. Nella hall della pensione c’è silenzio, fuori nevica ancora.
Andiamo a dormire con una certezza nuova: in Germania anche le tasse sembrano andare a letto presto, ordinate, puntuali e prevedibili.
Imposte dirette – Englischer Garten e tasse che corrono dritte
La mattina dopo, quando scendiamo nella piccola hall della pensione, storditi dal sonno e dalla birra della sera prima, troviamo Fritz già operativo. È vestito con una tuta del Bayern Monaco, scarpe da running professionali e un cappello di lana che gli lascia scoperti solo gli occhi. Ci guarda con un mezzo sorriso, di quelli che mescolano simpatia e pietà.
«Ihr seht ein bisschen… kaputt aus», ci dice. Sembrate un po’ distrutti.
«Abbiamo solo bisogno di un buon caffè,» rispondo.
«Nein, Kaffee hilft nicht. Joggen! Venite a correre. Vi porto all’Englischer Garten. Fa bene per il corpo… e per la mente.»
È giovane, in forma, e parla l’italiano quanto basta per punzecchiarci. Accettiamo. Più per orgoglio che per convinzione.
Englischer Garten – Progressività “ragionevole”
Il freddo fuori è una frustata. Aria secca, tagliente, che entra nei polmoni come ghiaccio. I vialetti dell’Englischer Garten sono tirati a lucido: la neve è stata spinta ai lati con una precisione quasi estetica.
Il parco è immenso: prati bianchi, ruscelli che fumano nel gelo, corridori che si muovono come metronomi. In pochi minuti capiamo perché Monaco sia considerata la capitale “sportiva” della Germania.
Noi arranchiamo. Fritz no. Fritz vola.
Dopo circa due chilometri lo raggiungiamo mentre saluta un suo conoscente.
«Questo è Thomas,» ci dice. «Lavora per un grande gruppo di elettronica. Vi può spiegare bene come funzionano le Steuern qui da noi.»
Thomas ha quel fisico asciutto e solido che sembrano regalarti gratuitamente i Paesi nordici. Continuiamo a correre tutti insieme, mentre lui parla con naturalezza, senza perdere fiato.
«Da noi,» esordisce, «il sistema è progressivo, sì… ma non punitivo. L’Einkommensteuer parte da zero: fino a 11.604 euro annui non paghi niente. Poi sale, lentamente, dal 14 per cento fino al 42 per cento. Solo oltre 277.675 euro arrivi al 45 per cento.»
Corre come se stesse facendo una passeggiata. Noi sembriamo in salita perenne.
«Per un reddito di 50.000 euro,» continua, «il carico effettivo è intorno al 32-33 per cento. Sotto l’Italia, sopra la Svizzera. Ma con una cosa che vale oro: stabilità. Non ci svegliamo ogni anno con un nuovo decreto da capire.»
«E il Solidaritätszuschlag?» gli chiedo, recuperando un po’ di fiato.
«Quasi sparito. Rimane solo per chi guadagna molto. È più simbolico che reale.»
Il concetto è semplice: progressività senza scena madre, poche sorprese, nessun ginepraio interpretativo.
Körperschaftsteuer e Gewerbesteuer – La spina dorsale fiscale
Arriviamo al ponticello sull’Eisbach. Sotto, come ogni mattina, due surfisti sfidano l’onda artificiale. Monaco è così: disciplina tedesca e follia controllata.
«E per le aziende?» domando mentre ci fermiamo un secondo a guardare l’acqua.
Thomas riparte subito: «La Körperschaftsteuer è la parte semplice: 15 per cento. Con il contributo di solidarietà diventa circa 15,8 per cento.»
Poi arriva la parte più “tedesca” del sistema: «La vera variabile è la Gewerbesteuer, la tassa comunale sulle imprese. Ogni città applica una sua aliquota. Si va dal 7 per cento al 17 per cento. Monaco? Più verso il 17.»
«Quindi alla fine?»
«Una società tedesca paga mediamente tra il 28 per cento e il 30 per cento. Non siamo super competitivi come Irlanda o Olanda… ma la nostra forza è la coerenza normativa. Quello che vale oggi, vale domani. E vale dopodomani.»
Poi aggiunge, con un mezzo sorriso bavarese: «Le plusvalenze da partecipazioni hanno la participation exemption, se rispetti le condizioni. E quelle condizioni sono scritte, non… interpretate.»
«Anche il rigore, qui, è un incentivo,» gli dico. «Chi paga sa dove finiscono i soldi.»
Thomas sorride: «Ja, aber… anche noi abbiamo le scappatoie. Solo che le chiamiamo Regelungen. E non cambiano ogni tre mesi.»
Ripartiamo, i nostri passi lasciando tracce leggere nella neve fresca. L’Englischer Garten davanti a noi sembra un manuale di diritto tributario in forma di paesaggio: lineare, prevedibile, ordinato.
Una corsa così — lenta, nordica, piena di regole — è quasi meditativa. E non capita spesso che parlare di imposte aiuti a respirare meglio.
Patrimoniali e successioni – Alte Pinakothek e memoria di famiglia
Dopo la corsa e una doccia calda che ci rimette al mondo, decidiamo di fermarci in un locale vicino alla Königsplatz per un pranzo veloce. Ordiniamo Leberkäse con insalata di patate: un classico bavarese, semplice, comfort food da giornata gelida.
Max — abituato ai bistrot di Milano e ai menù degustazione “minimal” — guarda la fetta di Leberkäse come si guarda un’opera concettuale di cui non si è certi della profondità culturale.
«Ragazzi… ma questo è un mattone rosa», sussurra.
Marco gli dà una gomitata: «Mangia e non rompere, che qui è specialità.»
Io rido: «Almeno non c’è da pagare il coperto.»
Dopo pranzo, raggiungiamo l’Alte Pinakothek, uno dei musei più raffinati d’Europa. Fuori nevica ancora, dentro regna un silenzio che ha qualcosa di liturgico: pavimenti lucidati, luci che valorizzano ogni dettaglio, visitatori che si muovono lenti come in un rito nordico.
Entriamo nella grande sala dedicata a Dürer. I suoi ritratti, con quei lineamenti netti, scolpiti, geometrie quasi matematiche, mi strappano un commento spontaneo mentre mi avvicino a Marco.
«Ecco l’anima di quello di cui parlavamo ieri sul loro fisco,» dico ridendo. «Tutto definito, tutto misurato, tutto Ordnung.»
Marco annuisce: «Altro che le nostre interpretazioni creative. Qui anche le ombre stanno in regola.»
È nella sala dedicata ai maestri fiamminghi che incontriamo Heike, una conoscenza di Cisco. Ha arredato mezzo quartiere di Schwabing e conosce praticamente chiunque. Heike è una curatrice del museo: elegante, precisa, con una calma che sembra scolpita nel marmo.
«Cisco mi ha detto che siete a Monaco per un weekend di cultura, di calcio… e di birra,» dice salutandoci. «Posso offrirvi la prima. La seconda… non qui dentro.»
Ci accompagna davanti a un grande Altdorfer: figure minuscole perse in un paesaggio monumentale, ogni elemento calibrato, nessuna improvvisazione.
«Vedete,» dice, «questo è un quadro che potrebbe spiegare la nostra Erbschaftsteuer meglio di tanti manuali. Ogni dettaglio ha un suo posto. Ogni passaggio è misurato. Ogni erede ha la sua quota. Matematica, non filosofia.»
Poi inizia a raccontare la sua esperienza personale.
«Quando è mancata mia nonna,» spiega, «io e mio fratello abbiamo ereditato la sua piccola casa a Schwabing. Non era grande, ma il valore qui sale come il lievito nello Stollen. In Germania non esiste una patrimoniale annuale sulle persone fisiche. L’abbiamo abolita nel 1997 e nessuno ha mai avuto davvero la tentazione di reintrodurla. Qui il patrimonio non si tassa anno per anno: si tassa quando passa di mano. La nostra imposta di successione è progressiva, ma non ideologica. Per gli eredi in linea diretta parte dal sette per cento e cresce solo quando il patrimonio diventa consistente; per parenti lontani può arrivare fino al trenta per cento. È un sistema che distingue tra continuità familiare e dispersione patrimoniale.»
Si avvicina a una finestra, osservando la neve fittissima che cade nel cortile interno del museo.
«Le franchigie riflettono la stessa logica. Ogni figlio può ricevere fino a quattrocentomila euro senza pagare imposte. Il coniuge la stessa somma. Molto meno per nipoti, fratelli o eredi lontani. È un modo per dire: la ricchezza familiare è una linea continua; ciò che esce dal nucleo affronta una pendenza diversa. E le donazioni funzionano allo stesso modo. Se un genitore regala una casa, o una somma importante, la franchigia si applica allo stesso modo. E ogni dieci anni si azzera. Un incentivo alla pianificazione, non all’azzardo.»
Sorride, quasi con dolcezza.
«A noi è andata bene. La franchigia ha coperto quasi tutto. Abbiamo pagato un’imposta intorno al dieci per cento. Molto meno di quanto avrebbe pagato un mio collega a Parigi per una casa identica.»
Daniel interviene: «Io ho un amico francese che ha ereditato un appartamento a Lione. Tra patrimoniale IFI, imposta immobiliare e successione… ha pagato quasi quanto valeva la casa.»
Heike sorride, con quella compostezza tipicamente tedesca: «In Francia la fiscalità successoria ha una funzione sociale, quasi pedagogica: égalité, redistribuzione, imposte come strumento di equilibrio. Da noi no. Da noi il principio è diverso: nessuna patrimoniale annuale, ma rigore nel momento del passaggio generazionale. Meno politica, più matematica.»
«Più Ordnung,» dico io.
«Esattamente,» risponde lei. «Non vogliamo punire la ricchezza, ma controllare il modo in cui si muove da una generazione all’altra.»
Camminiamo nella sala barocca, tra Rubens e Van Dyck, mentre la neve fuori si intensifica e ricopre le finestre di un velo lattiginoso. Il museo sembra isolato dal mondo, sospeso in una quiete che amplifica ogni pensiero.
E capiamo una cosa semplice e definitiva: la Germania tassa il futuro, non il presente. E lo fa con una logica ferrea, mai ideologica.
Agevolazioni e incentivi – La Germania che pianifica
La sera la passiamo alla Augustiner Bräustuben, una delle birrerie storiche di Monaco. È un luogo che non assomiglia a nulla di italiano: un misto di cattedrale laica e mercato popolare, con immense tavolate comunitarie dove ci si siede accanto a perfetti sconosciuti come se ci si conoscesse da anni. Le panche sono di legno massiccio, consumate da decenni di mani, boccali e brindisi; le pareti sono ricoperte di foto d’epoca di fabbri, contadini, vecchie feste del Maibaum.
Le cameriere, con i loro Dirndl dai colori accesi, portano boccali da un litro come se fossero bicchieri di plastica. In sottofondo musica bavarese, fisarmoniche e melodie che parlano di montagna, birra e tempi che non tornano più.
Nella stessa sala convivono mondi diversi: manager in giacca e cravatta che sorseggiano una lager guardando il Mac, studenti che ridono troppo forte, famiglie che dividono uno stinco gigante, anziani che sembrano usciti da un film di Herzog, coppie innamorate, turisti spaesati, nuovi cittadini tedeschi arrivati da mezzo mondo, ultras del Bayern che si preparano alla partita intonando cori e sfottò ai tifosi avversari.
A tavola con noi c’è Vladimir, il capo di Marco. Marco — country manager Italia di una società tedesca — lo presenta come «uno dei CEO più illuminati» che abbia incontrato. Vladimir è originario dell’Europa dell’Est, arrivato in Germania vent’anni fa «con una valigia mezza vuota e un’idea molto chiara: qui, se lavori, succede qualcosa».
Quando arrivano i nostri piatti — Schweinshaxe, Spätzle, Sauerbraten — la conversazione prende la piega prevista.
«Il punto,» dice Vladimir aprendo il boccale come fosse un libro contabile, «è che in Germania l’innovazione non è una moda. È un pilastro.»
Racconta che il Paese investe da anni in politiche stabili per sostenere la Mittelstand, la rete di piccole e medie imprese che rappresenta l’ossatura dell’economia tedesca. A differenza dei nostri bonus a tempo, qui gli incentivi non sono un miracolo inatteso, ma una promessa mantenuta.
«Abbiamo il Forschungszulagengesetz,» spiega. «Un credito d’imposta del 25 per cento per la ricerca e lo sviluppo. Funziona, è semplice, è prevedibile. Le aziende possono pianificare a cinque, dieci anni.»
Marco annuisce: «È la grande differenza rispetto all’Italia. Da noi l’innovazione è spesso un decreto-legge dell’ultima settimana utile. Qui è un piano industriale.»
Vladimir ride: «Questo perché la Germania non ha paura del futuro. Le nostre aziende investono nell’industria green, nella tecnologia, nella digitalizzazione… perché sanno che lo Stato non cambierà idea tra tre mesi.»
Beve un sorso, poi aggiunge: «E la Mittelstand vive di questo. Non sono colossi con budget infiniti, ma aziende familiari che innovano con coraggio. Senza quegli incentivi, metà di loro non potrebbe sostenere i costi dei laboratori, dei brevetti, della formazione.»
Tra un boccale e l’altro, la sala vibra dei cori degli ultras: un accenno di Stern des Südens si alza dalle panche e qualcuno brinda urlando «Mia san mia!». La serata scorre densa, piena di storie. Max dopo un’altra birra si unisce ai cori.
Vladimir, guardandosi attorno, dice una frase che rimane impressa: «In Germania, lavorare non è solo produrre. È partecipare a un sistema che ti mette nelle condizioni di migliorarti. Non è un Paese perfetto, ma è un Paese che mantiene le promesse.»
La musica, l’odore di birra e stufati, la neve che si accumula fuori: tutto contribuisce a una sensazione chiara. Qui l’innovazione non è un atto di fortuna: è un dovere civile.
Allianz Arena – Capitale umano e intelligenza artificiale
L’ultimo giorno del nostro weekend tedesco è dedicato al rito più universale che ci sia: il calcio.
Siamo cinque amici, cinque storie, cinque fedi calcistiche: due interisti, due juventini, un milanista. L’Unione Europea, al confronto, sembra più semplice da gestire.
È il giorno di Bayern Monaco – Borussia Dortmund e non potevamo perdercelo. Io, da interista militante, mi presento all’Allianz Arena con la sciarpa dell’Inter ben visibile, quasi una dichiarazione diplomatica.
Marco scuote la testa: «Se ci cacciano, io non ti conosco.» Max ride: «Almeno se ci menano avremo una storia da raccontare.»
L’Allianz Arena appare nella neve come un’astronave atterrata a Nord di Monaco: pannelli che si illuminano di rosso Bayern, linee curve, un’architettura che sembra respirare.
Entriamo presto, per evitare il flusso dei tifosi, e mentre ordiniamo due birre leggere — moderate, quasi simboliche — incontriamo Klaus, un vecchio compagno del Poli di Marco e Cisco, ora imprenditore digitale con uffici tra Monaco e Stoccarda.
Klaus ha quella tipica cadenza italiana dei tedeschi che hanno studiato in Erasmus a Milano: le “r” troppo morbide, il sorriso largo, un’eleganza casual che non si compra. Ci abbraccia come se fossimo compagni di corso.
Ci sediamo sugli spalti ancora semivuoti, con la vista sul campo illuminato e gli steward che controllano i tornelli. Parliamo — un po’ per scherzo, un po’ seriamente — di come sarebbe crescere i figli tra Lombardia e Baviera, vicini alle nonne, ma in un Paese che cresce da ottant’anni con la regolarità di un metronomo.
Klaus non aspetta nemmeno la domanda.
«Il punto,» dice, «è che la Germania non compra il capitale umano. Lo attira. È un concetto diverso.»
Per chi ha competenze alte, ci spiega, esiste un percorso chiaro. Non perfetto, ma chiaro. Parla del visto per lavoratori altamente qualificati, l’Hochqualifiziertenvisum: ingegneri, ricercatori, manager con responsabilità avanzate e compensi sopra determinate soglie.
«Non vi regaliamo sconti miracolosi,» aggiunge, «ma vi diamo una strada che non cambia ogni anno. Permesso rapido, condizioni stabili, possibilità di portare la famiglia, deduzioni sulle spese di trasferimento e, in alcuni casi, un trattamento fiscale transitorio più leggero, negoziabile nei contratti. Non è come il vostro regime per impatriati, però funziona. Fa parte di un pacchetto complessivo, non di un bonus emergenziale.»
Marco annuisce: «Da noi a volte pensiamo che un incentivo fiscale possa compensare infrastrutture che non funzionano. Qui la logica è opposta: prima il sistema, poi gli sconti.»
Klaus sorride: «Esatto. La Baviera non deve convincere nessuno a venire. Deve solo fare in modo che chi arriva rimanga.»
Intanto la curva Sud inizia a riempirsi e parte un coro malinconico, di quelli che parlano di leggende come Rummenigge e Beckenbauer. È un canto largo, dolce, quasi operistico. Ci fermiamo ad ascoltarlo: ci sono emozioni che non hanno bisogno di traduzioni.
Poi Klaus riprende, indicando lo smartphone: «E non dimenticate l’altra grande leva: la digitalizzazione. In Germania l’amministrazione fiscale funziona sempre più come un algoritmo. Le dichiarazioni passano da piattaforme come ELSTER, milioni di contribuenti usano interfacce pulite, controlli automatici, compilazioni predefinite. E nei controlli entrano tecnologie più avanzate: sistemi che incrociano dati catastali e finanziari, segnalano anomalie, mandano avvisi rapidi.»
Si ferma un attimo, poi aggiunge: «L’Europa spinge con l’AI Act, e la Germania è tra i Paesi che lo stanno integrando più velocemente. Pensate al vostro fisco: bravissimo a raccogliere, meno a prevedere. Da noi l’obiettivo è anticipare i problemi. Un sistema predittivo, non solo repressivo.»
«La nostra sfida è restare umani in un Paese che funziona come un algoritmo,» commento.
«Forse sì,» risponde lui. «Ma è più facile restare umani quando il sistema fa il suo lavoro. Senza sorprese, senza drammi.»
Lo stadio si accende di rosso. I giocatori entrano in campo. Gli ultras esplodono in un unico boato. Klaus si mette la sciarpa del Bayern, io stringo quella dell’Inter come un atto di resistenza culturale.
E nel mix di cori, bandiere e fiato che si condensa nell’aria gelida, mi viene un pensiero semplice: la Germania non seduce con promesse, ma con prevedibilità. Non compra talenti: li integra. Non rincorre il futuro: lo pianifica.
La partita inizia. E tutto il resto — tasse, AI, visti, incentivi — si dissolve per novanta minuti nell’unico linguaggio universale che conosciamo.
Conclusione – Il vizio e la virtù del modello tedesco
Il viaggio di ritorno inizia presto la mattina seguente. Monaco si sveglia sotto una coltre di neve silenziosa, e mentre imbocchiamo l’autostrada verso Sud la città scompare lentamente nello specchietto, come una fotografia che si sfoca ai margini.
Attraversiamo la Svizzera scivolando tra montagne immobili, e poi il traforo del Gottardo, quel corridoio infinito che separa e unisce insieme Nord e Sud Europa. Quando usciamo dal tunnel, il cielo è più chiaro, l’aria più mite, come se il continente cambiasse respiro.
È in quell’istante, in quella sospensione tra due mondi, che ripenso a tutto ciò che abbiamo visto. Monaco, con la sua calma matematica. Le sue leggi che non si improvvisano. I musei ordinati come bilanci. Le birrerie che diventano luoghi di comunità. E un sistema fiscale che sembra costruito per durare più che per sorprendere.
La virtù tedesca è evidente: un fisco efficiente, trasparente, misurabile, che riduce le zone d’ombra e trasforma gli adempimenti in procedura quasi ingegneristica. Un fisco che non promette miracoli, ma garantisce stabilità.
Il vizio tedesco, però, è la sua rigidità. La scarsa tolleranza per l’eccezione, per il caso particolare, per la storia personale. Un Paese dove l’Ordnung è un valore assoluto, ma a volte può assomigliare a una porta chiusa.
E inevitabilmente penso all’Italia. Ai nostri codici pieni di virgole e alle nostre interpretazioni ardite. Al caos che troppo spesso condanniamo, ma che qualche volta diventa creatività. Alla flessibilità che ci salva e ci confonde allo stesso tempo.
Sorrido, guardando la strada che scende verso la pianura lombarda.
«Loro costruiscono ponti fiscali,» dico ai miei amici. «Noi li attraversiamo quando servono.»
E forse, alla fine, è proprio questo: ogni Paese ha il suo modo di stare al mondo, di tassarlo e di raccontarlo. La Germania con la precisione di un architetto. L’Italia con l’istinto di un narratore.
Due modelli, due storie, due strade che — come quelle che attraversano l’Europa — a volte divergono, a volte si incrociano. Ma sempre portano a casa, da qualche parte tra efficienza e umanità.


