Se è provata l’antieconomicità la rettifica deve allinearsi ai valori di mercato
di Andrea Gaeta e Maurizio Nadalutti
Nel linguaggio accertativo dell’Agenzia delle Entrate, il termine antieconomicità ricorre con frequenza crescente. Rilievi di questo tipo prendono le mosse dal principio – enunciato dalle Entrate nella nota n. 55440 del 08/04/2008 – secondo cui “chiunque svolga un’attività economica è indotto a ridurre i costi o a massimizzare i ricavi, a parità di tutte le altre condizioni”. Comportamenti difformi a tale principio, secondo l’Amministrazione finanziaria, possono celare l’intento di sottrarre materia imponibile.
Si riscontra, però, che gli uffici verificatori tendono ad attribuire una valenza assoluta all’antieconomicità: se un costo appare eccessivo, sproporzionato o incongruo rispetto al valore del bene o del servizio, viene infatti considerato non inerente e quindi integralmente indeducibile.
Tuttavia, questa impostazione, ormai sedimentata nella prassi, non trova conferma nella giurisprudenza più recente, che restituisce al concetto di inerenza la sua originaria natura qualitativa e, quando anche lo si ammetta in senso quantitativo, circoscrive il potere di rettifica alla sola parte eccedente il valore di mercato.
La Corte di cassazione, dopo la “dirompente” ordinanza n. 450/2018, secondo la quale l’inerenza ha natura qualitativa e non quantitativa, non richiede un’utilità immediata o diretta e non può essere confusa con la congruità o la convenienza economica della spesa, segnando così un netto superamento delle letture che subordinavano la deducibilità dei costi alla loro utilità economica, ha progressivamente delineato un equilibrio: l’Amministrazione può censurare la deducibilità dei costi solo quando l’antieconomicità sia manifesta, macroscopica e concretamente riscontrabile.
Su questo solco, la giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass. n. 3170 del 09/02/2018, Cass. n. 29002 del 11/11/2019, Cass. n. 26636 del 24/11/2020 e Cass. n. 10422 del 19/04/2023) ha così statuito che l’Amministrazione finanziaria può contestare l’incongruità e l’antieconomicità della spesa, che assumono rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi in essa, purché l’accertamento sia sorretto da presunzioni che si basano su elementi caratterizzati da gravità, precisione e concordanza.
Ne discende che, nell’ambito delle contestazioni aventi ad oggetto l’antieconomicità di una spesa, va fatta esclusivamente un’analisi di tipo quantitativo, non qualitativo: la rettifica che disconosce la deducibilità di un costo in quanto sproporzionato non può dunque condurre ad un rilievo basato sul difetto di inerenza, ma, semmai, sulla previsione contenuta nell’articolo 39, comma 1, lett. d), del Dpr 600/1973, trattandosi di rettifiche di tipo presuntivo.
Questo ragionamento porta a concludere che non è corretto disconoscere l’intero importo della spesa per la quale l’ufficio ha provato l’antieconomicità, ma va ripreso a tassazione solo e soltanto l’eccesso rispetto al valore normale.
In questa direzione si muove l’ordinanza n. 3290 del 10 febbraio 2025, la quale precisa che l’antieconomicità di una spesa può comportare la non inerenza «di una parte dei costi» e non dell’intero componente negativo. Si tratta di un principio che trova oggi conferma in quella giurisprudenza di legittimità che afferma che l’Ufficio, per sostenere la tesi dell’antieconomicità, deve individuare il valore normale ex articolo 9 del Tuir e dimostrare quale sia la quota di costo eccedente quel valore. L’antieconomicità, in altri termini, non può essere affermata in astratto, ma richiede la definizione di un parametro oggettivo di riferimento, rappresentato dal valore di libero scambio.
Questa impostazione trova solide basi normative. L’articolo 9, comma 3, del Tuir definisce il valore normale come il prezzo mediamente praticato per beni o servizi similari in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili. Tale parametro, comune al principio arm’s length di matrice internazionale, costituisce il punto di equilibrio tra la libertà d’impresa e l’esigenza di evitare manipolazioni dei valori di scambio volti a celare materia imponibile. L’Agenzia delle Entrate non può quindi annullare l’effetto fiscale dell’intera operazione, ma deve dimostrare, anche con riferimento al “mercato”, quale parte del costo travalichi la soglia della normale convenienza economica.
L’Amministrazione, pertanto, in questi casi non può disconoscere l’intero costo, pena la violazione dei principi di proporzionalità e capacità contributiva.
Il discorso cambia radicalmente sul versante dell’Iva. In questo ambito, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha da tempo chiarito che il tributo colpisce il valore effettivo dello scambio, non quello presunto o stimato dall’Amministrazione. La prestazione di servizi è imponibile a titolo oneroso quando esiste un rapporto giuridico tra le parti nel quale le prestazioni sono reciproche e il corrispettivo rappresenta l’effettivo controvalore del servizio. È invece irrilevante, ai fini della qualificazione di un’operazione come “a titolo oneroso”, che essa sia effettuata a un prezzo superiore o inferiore al prezzo di costo, e dunque a un prezzo superiore o inferiore al prezzo normale di mercato (in questi termini si è espressa, ad esempio, la sentenza EQ del 15 aprile 2021, causa C-846/19; v. anche 25 novembre 2021, causa C-334/20, Amper Metal).
Ne deriva che, nel sistema dell’Iva, il valore della cessione o della prestazione è quello pattuito e pagato, e non può essere sostituito da un valore oggettivo o di mercato. Le rettifiche basate sull’antieconomicità sono, quindi, incompatibili con la struttura del tributo comunitario: non spetta all’Amministrazione stabilire quale sarebbe stato il “prezzo giusto”, ma solo verificare che lo scambio sia reale e non fittizio. Un’eventuale sproporzione del prezzo può al più fungere da indizio di frode o di inesistenza dell’operazione, ma non legittima una rettifica autonoma dell’imponibile o dell’imposta.
In conclusione, il sindacato di antieconomicità deve restare confinato entro limiti rigorosi. Ai fini delle imposte sui redditi, l’Agenzia può disconoscere soltanto la parte di costo che eccede il valore di libero mercato, non l’intera spesa effettivamente sostenuta e ritenuta sproporzionata. Ai fini Iva, invece, le rettifiche fondate sull’antieconomicità sono in radice illegittime: nel diritto dell’Unione, il valore dell’operazione è quello stabilito tra le parti, e non può essere sostituito da un valore presunto o stimato. Ogni diversa impostazione finisce per negare la logica stessa del sistema dell’imposta e travolge il principio di neutralità che la governa.


