Scelte da fare per l’affrancamento delle riserve in sospensione di imposta
di Giacomo Monti
Un tema che quest’anno assume certamente interesse è quello legato all’affrancamento delle riserve in sospensione di imposta, facoltativamente previsto dall’articolo 14 del Dlgs. 192/2024 e altresì previsto dall’articolo 1, comma 32, della L. n. 207 del 30/12/2024 (“legge di bilancio 2025”) nell’ambito della reintroduzione dell’agevolazione fiscale connessa all’assegnazione o alla cessione agevolata dei beni ai soci e alla trasformazione agevolata in società semplice.
Il primo dubbio interpretativo, che nasce dalla lettura delle diverse norme, è come le stesse possano (o forse “debbano”) interagire fra loro.
L’articolo 14 del Dlgs. 192/2024, in via straordinaria, riconosce la possibilità – dietro versamento di un’imposta sostitutiva del 10 per cento – di affrancare, in tutto o in parte, le riserve in sospensione di imposta, esistenti nel bilancio dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2023 e che ancora residuano nel bilancio dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2024.
In maniera analoga, il comma 32 dell’articolo 1 della L. n. 207/2024 prevede che “Le riserve in sospensione d’imposta annullate per effetto dell’assegnazione dei beni ai soci e quelle delle società che si trasformano sono assoggettate a imposta sostitutiva nella misura del 13 per cento”.
Non è chiaro, ad avviso di chi scrive, la funzione che dovrà assumere il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, richiamato dal secondo comma dello stesso articolo 14 del Dlgs. 192/2024, visto e considerato che la norma riconosce a tale decreto la possibilità (e non “l’obbligo”) di dettare le relative disposizioni attuative. Nella misura in cui una norma demandi ad un decreto ministeriale il compito di definirne le regole di attuazione, l’importanza del decreto stesso è tale da non poter lasciare al Ministero competente la facoltà di decidere se emanarlo o meno, ciò in quanto la mancata emanazione del decreto renderebbe, di fatto, inattuata la previsione di legge.
Supponendo, tuttavia, che le previsioni di cui all’articolo 14 del Dlgs. 192/2024 diventino pienamente operative, in presenza della contestuale previsione di due norme che, per una medesima fattispecie, prevedono due differenti aliquote di imposta, si presume che la scelta del contribuente, ove possa convenire, verta sempre sull’applicazione dell’aliquota di imposta più bassa. Ecco che, quindi, ad esempio, se l’assegnazione agevolata comportasse un utilizzo delle riserve in sospensione iscritte a patrimonio netto, la società avrebbe sicuramente interesse a svincolarle preventivamente, avvalendosi del disposto di cui all’articolo 14 del Dlgs. 192/2024.
Peraltro, se consideriamo che le due norme prevedono termini di effettuazione differenti, visto che:
- nel caso dell’affrancamento straordinario, la prima rata (delle quattro obbligatorie) dell’imposta sostitutiva dovrà essere versata entro il termine di pagamento del saldo delle imposte sui redditi relative al periodo di imposta 2024 (per soggetti “solari”, quindi, entro il 30 giugno 2025);
- mentre, nel caso dell’assegnazione o della cessione agevolata dei beni ai soci, o della trasformazione agevolata, la prima quota (pari al 60 per cento) dell’imposta sostitutiva complessivamente dovuta, andrà versata entro il 30 settembre 2025,
potrebbero prospettarsi casi in cui la decisione di avvalersi dell’affrancamento straordinario, di cui all’articolo 14 del Dlgs. 192/2024, prescinde da ciò che si deciderà poi di fare entro fine settembre.
In realtà, ad avviso di chi scrive, per come è impostato il comma 32 dell’articolo 1 della legge di bilancio 2025, si potrebbe presupporre, nel caso di assegnazione o cessione dei beni ai soci ovvero di trasformazione in società semplice, l’esistenza di un vincolo “preferenziale” sull’annullamento delle riserve in sospensione di imposta, scaturente da queste stesse operazioni; di fatto, quindi, in tali casi, potrebbe non essere possibile applicare l’aliquota del 10 per cento. Proprio per questo motivo, chi scrive ritiene plausibile pensare che non solo verrà emanato il decreto attuativo ma, anche, che tale decreto possa prevedere l’incompatibilità tra l’applicazione dell’aliquota del 10 per cento e l’effettuazione delle operazioni agevolate previste dalla legge di bilancio 2025.
Il secondo dubbio che sorge è, invece, legato all’individuazione del valore su cui va applicata la relativa percentuale di imposta.
Negli anni, tutte le norme che hanno riconosciuto la possibilità di rivalutare beni di impresa hanno sempre rimandato al disposto normativo di cui all’articolo 13, comma 3, della L. 342/2000, ai sensi del quale, in caso di distribuzione del saldo attivo di rivalutazione, la tassazione a cui è soggetta la società erogante è calcolata sull’importo distribuito, aumentato della corrispondente imposta sostitutiva, versata dalla società stessa ai fini del riconoscimento fiscale della rivalutazione operata. Sulla base di questo, l’Agenzia delle Entrate (circolare 14/E del 2017) ha sostenuto che, anche in sede di affrancamento, l’imposta dovuta debba essere calcolata sul medesimo importo sul quale, in caso di distribuzione, sarebbe tassata la società erogante.
Di diverso pensiero è invece la Cassazione (sentenza n. 32204 del 10/12/2019), secondo la quale l’imposta per l’affrancamento deve essere calcolata sullo stesso saldo attivo di rivalutazione che trova collocazione in bilancio, pertanto sull’importo della rivalutazione operata, al netto dell’imposta sostitutiva versata.
Considerata la natura particolare delle sopra richiamate previsioni normative, ad avviso di chi scrive, l’imposta dovrebbe calcolarsi sul valore “netto” della riserva in sospensione di imposta. La convinzione di questo nasce dal fatto che, in caso di affrancamento, non spetta il credito di imposta previsto dal comma 5 dell’articolo 13 della L. 342/2000; pertanto, se l’aliquota del 10 per cento o del 13 per cento venisse applicata sul valore “lordo” della riserva, l’affrancamento potrebbe, in diversi casi, non essere per nulla conveniente e, quindi, le agevolazioni previste dal legislatore avrebbero, di fatto, scarso “potere attrattivo”.