Salve solo le stablecoin ancorate all’euro dall’aumento della sostitutiva per le criptoattività
di Maurizio Nadalutti
La legge di Bilancio 2026 ha ridotto al 26% l’aliquota dell’imposta sostitutiva in relazione ai redditi derivanti dall’utilizzo delle “stablecoin” ancorate all’euro, lasciando però immutata la misura – decisamente elevata – del 33% per le restanti cripto-attività dal 2026.
Dopo la fuga di capitali e la fuga di cervelli si prospetta così ora la fuga di cripto-investitori verso l’estero. L’Italia è incapace di trattenere in Italia capitali e talento, salvo poi prevedere misure fin troppo vantaggiose per favorirne il rientro, con un duplice danno per le casse erariali.
Ancora una volta accade che la pressione fiscale italica allontana cittadini dal nostro Paese, diretti in Stati in cui la tassazione è più morbida.
Sono infatti parecchi i contribuenti che hanno investito in cripto-attività, soprattutto i più giovani che non hanno ancora costruito un legame stretto con l’Italia – perché studiano o non hanno ancora un posto di lavoro stabile e non hanno ancora formato una famiglia – che stanno valutando di spostarsi all’estero (o lo hanno già fatto) per continuare la propria attività di trading in “crypto”.
Come è già stato messo in evidenza su Blast, la legge di Bilancio 2025, con decorrenza 1/1/2026, (articolo 1, comma 24, della legge n. 207 del 30 dicembre 2024), ha previsto un incremento generalizzato, dal 26% al 33%, del prelievo fiscale, in relazione alle plusvalenze e agli altri proventi realizzati mediante rimborso o cessione a titolo oneroso, permuta o detenzione di cripto-attività, comunque denominate (articolo 67, comma 1, lettera c-sexies), del Tuir).
La legge di bilancio 2026 ha ora ridotto l’imposta sostitutiva, al 26%, per le sole “stablecoin” ancorate all’euro, lasciando però immutata la misura del 33% per le restanti cripto-attività.
Nello specifico, viene stabilito che per i redditi diversi e gli altri proventi (lettera c-sexies dell’articolo 67, comma 1, del Tuir) derivanti da token il cui valore è stabilmente ancorato all’euro e i cui fondi di riserva sono detenuti integralmente in attività denominate in euro presso soggetti autorizzati nell’Unione europea, si applica l’imposta sostitutiva con l’aliquota del 26 per cento, in luogo di quella ordinaria del 33 per cento prevista in generale dal prossimo anno per le cripto-attività.
In più, sempre per le medesime fattispecie ancorate all’euro, viene stabilito che non costituisce operazione fiscalmente rilevante la conversione con l’euro delle stesse, né il rimborso in euro del relativo valore nominale.
Si tratta di misure, quelle introdotte dalla legge di Bilancio 2026, che però non sono in grado di contenere il fenomeno di “esodo” dei cripto-investitori verso l’estero di cui si è sopra riportato.
L’aliquota del 33% stabilita, dal 2026, per i redditi derivanti dall’utilizzo della maggior parte di cripto-attività risulta davvero troppo elevata per chi opera regolarmente sul mercato “crypto”.
In più, la legge di Bilancio 2026 non prevede più la possibilità di rideterminazione del valore delle cripto-attività detenute, misura che permetteva, seppure con qualche rischio, di beneficiare di una tassazione tutto sommato accettabile.
E così in molti, soprattutto i più giovani, il futuro dell’Italia, si stanno guardando intorno e presto – se non lo hanno già fatto – si trasferiranno in altri Stati per godere di una tassazione sui proventi da crypto inferiore. Con la prospettiva, chissà, di tornare in Italia in futuro per beneficiare di qualche misura fiscale di favore – come il regime degli impatriati – dopo aver trascorso qualche anno lontano dai nostri confini.
O magari, nel frattempo, rendendosi conto di quanto sia più agevole vivere all’estero rispetto ad un Paese, il nostro, in cui “semplificazione” è forse una delle parole più abusate, decidono di rimanerci, fuori dall’Italia, per sempre.
Cosicché, lo Stato italiano finisce ancora una volta per fallire in uno degli obiettivi prioritari che ogni nazione dovrebbe avere: trattenere all’interno dei propri confini i cittadini e non indurli a partire per altre mete, svuotando il Paese di capitale, sia finanziario, sia umano.
L’aliquota impositiva del 33% prevista per le operazioni realizzative in crypto è sembrata fin dalla sua introduzione un’esagerazione, priva di una motivazione che avesse un senso razionale. Se l’intento era di limitare l’uso di cripto-attività, dato il rischio finanziario sottostante, e al contempo di fare cassa, il risultato è che non verrà centrato nessuno di tali obiettivi: l’investitore continuerà ad effettuare operazioni in crypto altrove, evitando di versare imposte all’erario italiano.
Verrebbe da dire: “Oltre il danno… La beffa”.
La speranza è che, prima che sia troppo tardi, ci sia un ripensamento e che il regime impositivo previsto per i proventi derivanti dall’utilizzo di cripto-attività venga allineato a quello degli altri prodotti finanziari, altrimenti si prospetta un nuovo fenomeno di fuga verso l’estero… quello dei cripto-investitori.

