Ritorno al passato (fiscale): la maggiorazione degli ammortamenti nella bozza del Ddl di bilancio 2026
di Gabriele Silva
Nella bozza della prossima Legge di Bilancio ricompare una misura che molti ricorderanno bene: la maggiorazione degli ammortamenti, meglio nota come super ammortamento o, nella sua versione potenziata, iper ammortamento.
Una vecchia conoscenza, insomma, che dopo anni di assenza torna a fare capolino nel sistema fiscale italiano. Ma è davvero un ritorno necessario, o soltanto un segnale di incertezza legislativa?
Un po’ di storia (che vale la pena ricordare)
Era il 2016 quando, con la Legge di Stabilità n. 208/2015, fu introdotto il cosiddetto super ammortamento: una maggiorazione del 40 per cento del costo di acquisto dei beni strumentali nuovi, che consentiva di dedurre fiscalmente un valore superiore al costo effettivo.
Un anno dopo, con la Legge di Bilancio n. 232/2016, arrivò l’iper ammortamento, dedicato ai beni Industria 4.0, con una maggiorazione fino al 150 per cento.
Fu una misura che ebbe un impatto reale: stimolò investimenti, rinnovò parchi macchine ormai obsoleti e, almeno nella fase iniziale, favorì anche settori “collaterali”, come l’automotive, dove la maggiorazione valeva perfino per l’acquisto delle autovetture aziendali.
Ma dietro a quell’entusiasmo si nascondeva anche una certa complessità: la misura agiva direttamente sul reddito d’impresa, e quindi sugli importi su cui venivano calcolate imposte e contributi. Ne derivava un doppio effetto positivo — riduzione dell’imposta e, per alcune categorie, anche dei contributi — ma non per tutti i soggetti in modo uniforme.
Dal super ammortamento al credito d’imposta
Con il tempo, quella struttura “a maggiorazione” venne superata.
L’esperienza maturata e l’esigenza di semplificare portarono all’introduzione del credito d’imposta per investimenti in beni strumentali, che di fatto sostituì sia il super che l’iper ammortamento.
Il nuovo schema, più lineare, presentava un vantaggio evidente: agiva non sul reddito ma sull’investimento.
In altre parole, non importava quanto l’impresa guadagnasse o quale fosse la sua base imponibile; contava quanto investiva.
Il credito maturato era compensabile tramite modello F24 — quindi utilizzabile per ridurre sia imposte che contributi — con un effetto più omogeneo e meno distorsivo rispetto al passato.
Anche i controlli risultavano più agevoli: grazie ai quadri RU, l’Agenzia delle Entrate poteva monitorare in modo più preciso i crediti utilizzati, riducendo il rischio di abusi.
Certo, non sono mancati momenti di confusione — si pensi alle comunicazioni preventive e consuntive da inviare al GSE per gli investimenti 4.0 — ma, nel complesso, il meccanismo del credito d’imposta ha rappresentato un passo avanti in termini di trasparenza e di equità.
Il ritorno della maggiorazione: una scelta difficile da decifrare
Eppure, nella nuova bozza della Legge di Bilancio, torna a comparire la maggiorazione degli ammortamenti (oltre la scomparsa di un’altra misura, davvero estemporanea: l’Ires premiale).
Una mossa che, a prima vista, lascia perplessi.
Perché reintrodurre un sistema che si era scelto di abbandonare?
Il rischio è quello di dare l’impressione di un legislatore che procede a tentoni: prima incentiva con un meccanismo, poi lo abbandona, poi lo riprende.
Il risultato è una discontinuità normativa che disorienta imprese e professionisti, costretti ogni anno a ricalcolare strategie, simulazioni e piani d’investimento sulla base dell’ennesimo cambio di regole.
La maggiorazione, infatti, ripropone alcuni effetti “asimmetrici” che il credito d’imposta aveva contribuito a correggere.
In pratica, si rischia di tornare a un sistema meno uniforme e più complesso da gestire.
Le conseguenze pratiche (e i rischi di sistema)
Dal punto di vista operativo, la reintroduzione della maggiorazione degli ammortamenti significa tornare a calcolare le quote fiscali distinte da quelle civilistiche, con il conseguente disallineamento temporaneo tra bilancio e dichiarazione dei redditi.
Un lavoro aggiuntivo per gli studi, certo, ma soprattutto un nuovo elemento di incertezza per le imprese.
Inoltre, la riduzione del reddito imponibile — che in teoria è un vantaggio — può avere effetti collaterali: un imponibile fiscale più basso può ridurre gli indici di solidità patrimoniale percepiti dagli istituti di credito.
Non è un caso che, negli anni del super e dell’iper ammortamento, diverse aziende si siano trovate a dover spiegare ai funzionari di banca perché il loro utile “era sparito”.
Il ritorno di questa dinamica rischia di creare nuovamente squilibri, soprattutto per le piccole imprese che si finanziano tramite credito bancario e per le quali la visibilità di bilancio è determinante.
Una riflessione necessaria
La domanda, allora, è una: serve davvero tornare indietro?
Il credito d’imposta aveva i suoi difetti, ma aveva anche il pregio della chiarezza.
Ogni impresa poteva sapere, sin dal momento dell’investimento, quale credito avrebbe maturato e in quanto tempo lo avrebbe recuperato.
Era un linguaggio semplice, comprensibile, e anche più controllabile dall’amministrazione.
La maggiorazione degli ammortamenti, invece, riporta la logica del beneficio “nascosto” dentro il reddito, poco percepibile e molto tecnico.
In un momento storico in cui le imprese hanno bisogno di certezze, di programmazione e di regole stabili, questa scelta appare quantomeno discutibile.
Conclusione
Non è questione di nostalgia, ma di coerenza.
Ogni volta che si cambia metodo — dalla deduzione al credito, e poi di nuovo alla deduzione — si mina la fiducia del contribuente nella capacità dello Stato di mantenere una rotta stabile.
Il legislatore dovrebbe comprendere che la vera agevolazione non è quella che cambia ogni anno, ma quella che dura abbastanza da poter essere pianificata.
Perché l’impresa, oggi, non chiede tanto uno “sconto” quanto una prospettiva.
E la prospettiva nasce solo dalla stabilità.