Ritenuta dell’1% tra imprese: le incognite (anche) operative del nuovo emendamento
di Simona Baseggio e Barbara Marini
Dal 1° gennaio 2029, se l’attuale formulazione della norma verrà confermata, nei rapporti tra imprese farà il suo ingresso una ritenuta d’acconto dell’1 per cento sui pagamenti, salvo che il percettore abbia aderito al concordato preventivo biennale o che non si trovi in regime di adempimento collaborativo. Una misura che, dopo le prime reazioni, merita ora di essere osservata con maggiore freddezza, perché le implicazioni sistemiche sono tutt’altro che marginali.
Il primo profilo critico si annida in una sorta di ostensione forzata della propria intimità fiscale dinanzi ai partner commerciali. Dalla fattura, infatti, dovrà necessariamente evincersi la posizione del fornitore in merito al concordato preventivo o all’adempimento collaborativo, giacché è proprio dal documento fiscale che il soggetto pagatore dovrà desumere se operare o meno la trattenuta dell’1 per cento. Ne discende che la fattura diventerà una implicita, ma inequivocabile, dichiarazione di status nei confronti del cliente, esponendo scelte tributarie che, per loro natura, dovrebbero rimanere riservate.
Il secondo nodo è ancora più ampio e merita un approccio meno ideologico e più tecnico. Il tema delle ritenute d’acconto sui ricavi delle imprese è un tema serio. Non può essere liquidato come un’eresia, ma nemmeno introdotto come una misura estemporanea, funzionale a obiettivi contingenti. Una ritenuta sui corrispettivi potrebbe avere una sua dignità solo all’interno di un disegno organico: percentuali calibrate sui margini di settore, valutazioni sull’impatto finanziario per le imprese, analisi degli effetti macroeconomici.
Qui, invece, la percentuale appare sganciata da qualsiasi considerazione strutturale. Un’aliquota uniforme dell’1 per cento ignora le profonde differenze di marginalità tra settori e modelli di business. Per alcune imprese potrà essere un fastidio trascurabile; per altre, soprattutto in comparti a bassa redditività, potrebbe rappresentare uno squilibrio finanziario non irrilevante. E quando uno squilibrio diventa strutturale, difficilmente resta confinato all’interno dell’impresa: il rischio di un effetto domino sui prezzi di filiera è tutt’altro che teorico. Anche se la ritenuta opera solo nei rapporti tra imprese, il costo finanziario tende fisiologicamente a essere ribaltato a valle, fino al consumatore finale, con potenziali effetti inflattivi che nessuno sembra aver seriamente misurato.
Non solo. La misura riguarda esclusivamente le imprese residenti. È lecito domandarsi se non si stia introducendo, indirettamente, un incentivo all’approvvigionamento dall’estero, alterando le dinamiche concorrenziali senza che vi sia una reale giustificazione fiscale.
Non meno inquietante è la prospettiva dell’aggravio gestionale, che rischia di ingolfare ulteriormente le strutture amministrative delle imprese. L’obbligo di operare la ritenuta impone una gestione parcellizzata dei flussi in uscita, costringendo il pagatore non solo al puntuale versamento mensile, ma anche alla successiva emissione delle certificazioni, conditio sine qua non per consentire al fornitore lo scomputo del tributo subito. Un meccanismo farraginoso che sembra quasi progettato per moltiplicare le occasioni di errore e ritardo, alimentando così un gettito “sanzionatorio” collaterale tutt’altro che trascurabile per l’Erario. Senza contare l’inevitabile cortocircuito delle quadrature: è facile profetizzare una nuova stagione di lettere di compliance, scatenate da algoritmi ciechi pronti a rilevare asimmetrie tra l’1 per cento dei corrispettivi fatturati e le ritenute effettivamente certificate. Il risultato finale? Certamente un’ulteriore accentuazione degli adempimenti, che trasformerà la vita aziendale in una defatigante rincorsa alla giustificazione documentale.
A questo si aggiungono incongruenze difficili da ignorare. La ritenuta non si applica a chi si trova in regime di adempimento collaborativo, ma continua a colpire chi opta facoltativamente per il Tcf (articolo 7-bis del Dlgs 128/2015 – a proposito: il testo dell’emendamento reca gli estremi sbagliati). Perché?
E che dire dei soggetti che non aderiscono al concordato non per scelta, ma perché privi dei requisiti? O di chi aderisce e poi decade retroattivamente dal concordato: cosa accade alle ritenute non subite nel periodo che si riteneva “coperto” dall’adesione? Questioni tutt’altro che teoriche, che vengono rinviate ad un futuro lontano, come se il solo differimento al 2029 potesse attenuarne la gravità.
Infine, resta il dubbio di fondo. Il Governo stima un aumento di gettito significativo da questa manovra. Ma siamo davvero convinti che una ritenuta d’acconto sia uno strumento efficace di contrasto all’evasione? L’equazione implicita – chi non aderisce al concordato è un “cattivo” – è quantomeno semplicistica. Soprattutto se si considera che, a oggi, non è stato ancora reso pubblico un confronto trasparente tra il gettito effettivamente incassato con il concordato e quello che si sarebbe ottenuto in sua assenza. Un dato che, con le dichiarazioni presentate, dovrebbe ormai essere disponibile.
La sensazione è che si stia virando verso una nuova tattica: archiviata, o quantomeno affiancata, la prospettiva dei controlli rafforzati, si introduce ora la leva finanziaria dell’anticipo d’imposta. Un meccanismo che assomiglia meno a un incentivo premiale e più a una forma di persuasione cogente.
Interventi di questa portata meriterebbero una genesi meno convulsa, slegata dall’urgenza di puntellare a tutti i costi il concordato. Forse, più che insistere con strumenti sempre più invasivi, sarebbe il caso di interrogarsi se l’istituto, così com’è concepito, funzioni davvero. Perché la capacità di riconsiderare una scelta e adattarla alla realtà operativa non è segno di debolezza, ma di lungimirante realismo.

