Remissione in bonis e formalismi di ritorno: l'ermeneutica “ondivaga” delle Entrate tra Consolidato e Superbonus
di Simona Baseggio e Barbara Marini
L’odierna pubblicazione di tre nuove risposte a interpello da parte dell’Agenzia delle Entrate — le numero 293, 294 e 295 del 2025 — offre lo spunto per una riflessione che trascende la mera casistica. Sebbene i documenti trattino fattispecie distinte, ovvero l’accesso tardivo al regime del Consolidato Fiscale Nazionale e la correzione di opzioni per i bonus edilizi, il fil rouge che li attraversa è l’istituto della remissione in bonis (articolo 2, comma 1, DL n. 16/2012). O meglio, è l’interpretazione sempre più acrobatica e “contorsionista” di quel concetto di «comportamento concludente» che dovrebbe esserne il cardine, ma che rischia di trasformarsi in una tagliola per il contribuente.
Le risposte n. 293 e 294 affrontano un tema speculare: l’omessa indicazione nel modello Redditi dell’opzione per includere una nuova controllata nel perimetro di consolidamento, e la volontà di sanare tale dimenticanza tramite remissione in bonis.
Nel caso della Risposta n. 294, l’Agenzia concede il via libera. Qui, la controllante ha calcolato gli acconti IRES basandosi sul metodo storico del consolidato preesistente, senza includere la neo-consolidata (che aveva un imponibile pari a zero nel periodo precedente). L’Ufficio riconosce che tale calcolo, non alterando la misura dell’acconto dovuto, configura un comportamento coerente con la volontà di consolidare. Fin qui, il buonsenso pare prevalere.
Tuttavia, è nella Risposta n. 293 che il ragionamento dell’Amministrazione mostra le sue asperità. Qui, la controllante e la controllata hanno versato gli acconti separatamente. L’Agenzia nega l’accesso alla remissione in bonis argomentando che, sebbene il versamento separato della prima rata sia tollerabile, il versamento separato della seconda rata (scaduta dopo il termine di presentazione della dichiarazione in cui si sarebbe dovuta esercitare l’opzione) rappresenta una condotta «non pienamente coerente». Il diniego si fonda su un sillogismo ferreo quanto discutibile: se aveste davvero voluto consolidare, avrebbe dovuto pagare tutto (o almeno il secondo acconto) la controllante.
Emerge qui la prima grande contraddizione, o se vogliamo, il primo “contorsionismo”. La remissione in bonis nacque per sanare l’errore formale a fronte di una sostanza ineccepibile. Nel caso della risposta 293, l’Erario ha incassato le somme dovute. Elevare la modalità di versamento (chi versa cosa) a discriminante insormontabile per l’accesso alla sanatoria significa reintrodurre dalla finestra quel formalismo che la norma del 2012 intendeva far uscire dalla porta. Si confonde la “concludenza” del comportamento — che dovrebbe attestare la volontà di aderire al regime — con la “correttezza” procedurale millimetrica, svuotando di fatto l’istituto della sua funzione salvifica.
Spostandoci sul versante dei bonus edilizi, la Risposta n. 295 chiude il cerchio di una rigidità ormai sistemica. Il caso riguarda un Condominio che ha erroneamente barrato la casella “cessione del credito” anziché “sconto in fattura”. Un mero clerical error, si direbbe, dato che in entrambi i casi vi è rinuncia alla detrazione diretta.
L’Agenzia, tuttavia, classifica questo errore come “sostanziale” e non emendabile, poiché incide sulla circolazione del credito (lo sconto permette passaggi diversi rispetto alla cessione pura). Ma il vero punctum dolens è l’impossibilità di ricorrere alla remissione in bonis per correggere la comunicazione tardiva, in virtù del blocco imposto dall’articolo 2 del DL n. 39/2024.
Anche qui, si assiste a un paradosso. L’istante non ha “ripensato” alla scelta fiscale (vietato), ma ha semplicemente sbagliato a comunicare la modalità attuativa di una scelta (la rinuncia alla detrazione) che rimane ferma. Eppure, l’evoluzione normativa recente ha trasformato la remissione in bonis da strumento di compliance a istituto “a geometria variabile”, attivabile o sopprimibile a seconda delle esigenze di cassa dello Stato, tradendo quel principio di affidamento e buona fede che lo Statuto del Contribuente vorrebbe (invano?) tutelare.
Leggendo in filigrana questi documenti di prassi, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a quella che autorevole dottrina — seppur in altri contesti, come quello dell’autotutela — ha definito provocatoriamente un “placebo canzonatorio”.
La remissione in bonis richiede, per operare, che la violazione sia meramente formale e che il comportamento sia concludente. Ma se l’Agenzia restringe il concetto di “comportamento concludente” fino a farlo coincidere con la perfetta esecuzione degli adempimenti sostanziali (come il pagamento unitario degli acconti nel consolidato), lo spazio per l’errore sanabile si riduce al lumicino. Si richiede al contribuente, per poter dire di aver “sbagliato in buona fede”, di aver agito come se non avesse sbagliato affatto.
È un cortocircuito logico. Se i versamenti sono capienti e l’Erario non subisce danno, negare la sanatoria per la provenienza del bonifico (Risposta 293) o per un flag errato non rettificabile post-mortem normativa (Risposta 295) certifica il trionfo della forma sulla sostanza. Un ritorno al passato che lascia il professionista e il contribuente con un’amara certezza: nel labirinto fiscale odierno, la “remissione” è un lusso che va meritato con una condotta quasi impeccabile, rendendo l’errore umano un lusso che nessuno può più permettersi.

