Sapendo che, come avvocata, mi occupo principalmente della difesa delle vittime dei reati legati alla violenza di genere, molti amici e colleghi che non trattano casi simili spesso mi chiedono quali siano le prove che i giudici utilizzano per condannare l’autore di una violenza sessuale, dal momento che nel processo, nella gran parte dei casi, esiste solo la parola della vittima contro quella dell’imputato.
Questa è anche una delle prima domande che mi rivolgono le vittime che incontro: “come dimostro la violenza subita, se è la mia parola contro la sua? Perché dovrebbero credere a me?”. Gli stessi dubbi che hanno assillato una delle nove vittime che ho assistito in un recente processo nei confronti di un medico, condannato per aver abusato sessualmente di nove giovani pazienti durante, appunto, alcune visite mediche.
Il giudice ha da poco depositato le motivazioni della sentenza di condanna a dieci anni di reclusione, nelle quali ha illustrato con molta precisione il ragionamento logico e giuridico che lo ha portato a ritenere le vittime attendibili.
Cercherò di riassumerne i principali passaggi, nel modo più semplice possibile, perché le domande accennate possano offrire una soluzione anche a chi, pur non “addetto ai lavori”, voglia conoscere e cerchi un minimo di chiarezza.
Innanzitutto, il giudice ha ribadito un costante principio della giurisprudenza di legittimità secondo cui la deposizione della persona offesa può essere, anche da sola, sufficiente a fondare una sentenza di condanna, purché sia sottoposta a un positivo e rigoroso vaglio di attendibilità (a maggior ragione se la vittima si costituisce parte civile, in quanto portatrice di interessi nel processo), senza che vi sia la necessità di “riscontri esterni” (cioè elementi diversi dalle dichiarazioni delle vittime, come telecamere, messaggi telefonici, analisi del profilo genetico dell’autore del reato, eccetera).
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