Quante persone servono davvero in ufficio? L’arte e la scienza del dimensionamento organizzativo
di Andrea Tordini
Ogni volta che sento parlare di “dimensionamento organizzativo”, mi torna in mente un’immagine precisa: quella di un’orchestra, che per funzionare bene sa che non è sufficiente avere tutti gli strumenti a disposizione; è necessario che ciascuno suoni al momento giusto, che il direttore sappia armonizzare, che ci sia un equilibrio fra chi porta il ritmo e chi dà melodia.
Con riferimento al campo organizzativo, allo stesso modo, un ufficio può sembrare ben strutturato sulla carta, ma nella realtà quotidiana rischiare di vacillare se non si tengono in considerazione i numerosi fattori che incidono sul lavoro delle persone.
Parlare di dimensionamento significa in fondo rispondere a domande apparentemente semplici: quante persone servono, quanto tempo devono avere a disposizione per svolgere i ruoli assegnati, quali competenze sono davvero necessarie, quali picchi di lavoro vanno previsti, quante e quali interferenze possono entrare in gioco, e, soprattutto, come il team percepisce e vive tutto questo. È un campo in cui la scienza fornisce strumenti preziosi, ma dove, a mio avviso, la sensibilità di chi prende le decisioni rimane, ancora oggi, determinante.
Il rigore accademico
La ricerca universitaria ha più volte contribuito a fare ordine in un tema dove il rischio di fare scelte approssimative è dietro l’angolo. Nell’ultimo decennio, alcuni studi hanno evidenziato che carichi di lavoro eccessivi, se non bilanciati da un adeguato supporto organizzativo, compromettono non solo le performance, ma anche il benessere psicologico. Non si tratta quindi di un mero problema numerico: dietro ogni calcolo ci sono persone con limiti e risorse che devono essere rispettati. E fin qui direte, siamo tutti d’accordo.
Altri studi hanno messo in luce il ruolo della percezione soggettiva. È stato dimostrato che la soddisfazione lavorativa dipende non solo dal carico oggettivo, ma da come questo viene vissuto dai lavoratori e dal vertice. Ciò che per uno rappresenta una sfida stimolante, per un altro può diventare insostenibile. Alcune ricerche sul “team workload” hanno spinto ancora oltre questa riflessione, mostrando come il lavoro di squadra non si esaurisca nei compiti principali, ma comprenda anche attività collaterali: dai meeting alle attività di coordinamento, dalle attività di formazione all’ascolto dei collaboratori, fino al “navigare” fra le dinamiche interne.
Questi contributi hanno in comune un messaggio chiaro: la scienza del dimensionamento è possibile, ma deve considerare sia le dimensioni “visibili” che quelle più soggettive e intime del contesto lavorativo di riferimento.
L’arte di interpretare i segnali
Eppure, a mio avviso, anche il modello più sofisticato rischia di fallire se manca la capacità di leggere il contesto. Uffici perfettamente dimensionati “sulla carta” possono implodere di fronte ad imprevisti come stagionalità, richieste improvvise o attività che richiedono molto più tempo del previsto. Al contrario, team “sottodimensionati” ma ben guidati possono riuscire a sostenere meglio carichi che in teoria avrebbero richiesto un numero superiore di risorse.
A mio avviso, ciò che fa davvero la differenza è la capacità di andare oltre i numeri: “ascoltare”, nel tempo, quali sono le ambizioni dei collaboratori, valutare le loro competenze, definire e riconoscere i segnali di stress, prevedere margini di manovra, coltivare una cultura aziendale dove chiedere aiuto non è un segno di debolezza ma di responsabilità. In questo senso, il dimensionamento diventa un’arte che nasce dall’ascolto, dalla sensibilità, dall’intuizione e dalla conoscenza diretta del proprio team.
Peter Drucker, padre del management moderno, sosteneva che “there is nothing so useless as doing efficiently that which should not be done at all.” È una frase che trovo illuminante: possiamo calcolare con precisione ore e risorse, ma se queste vengono spese in attività che non generano valore, l’organizzazione resta inefficiente a prescindere dal suo dimensionamento.
Il metodo come bussola
Se l’arte da sola non basta, è altrettanto vero che senza metodo si naviga a vista. Servono criteri chiari e condivisi per prendere decisioni fondate. Il primo riguarda la natura del lavoro: non è la stessa cosa gestire attività ripetitive rispetto a progetti creativi o analitici. Conta anche il tempo effettivo richiesto, che raramente coincide con quello stimato, perché include revisioni, correzioni e interruzioni continue.
Le competenze disponibili sono un altro elemento decisivo. Un team esperto può affrontare lo stesso carico con meno risorse rispetto a un gruppo alle prime armi. Allo stesso modo, la stagionalità e i picchi di attività non possono essere ignorati: in molti settori il lavoro non ha un andamento lineare, e strutturarsi senza tenerne conto è un errore che può costare caro.
Ci sono poi le attività “invisibili”: riunioni, email, momenti di formazione e di coordinamento. Sono il tessuto connettivo del lavoro e spesso pesano più di quanto si ammetta. Questo scarto tra numeri e sensazioni è forse il segnale più prezioso che bisogna imparare a cogliere.
Il progresso tecnologico aggiunge un’ulteriore variabile: gli strumenti digitali possono alleggerire il lavoro, ma se mal implementati finiscono per complicarlo. E, sopra ogni cosa, c’è la cultura organizzativa: un contesto collaborativo, dove ci si sostiene e si condivide (quando serve farlo), può far rendere le persone oltre qualsiasi previsione numerica.
Gli elementi che contano davvero
Il dimensionamento adeguato di un ufficio passa dalla capacità di leggere, contemporaneamente, diversi livelli della realtà aziendale. C’è la natura del lavoro, che può essere ripetitiva, creativa, tecnica o relazionale; c’è il tempo effettivo richiesto, che difficilmente coincide con quello stimato sulla carta; ci sono le competenze, che rendono un team esperto capace di affrontare lo stesso carico in maniera molto più agile rispetto a un gruppo inesperto.
Non si possono ignorare poi i picchi e la stagionalità, che in molti settori rappresentano la regola più che l’eccezione. Accanto a queste variabili “oggettive” si collocano quelle meno tangibili ma altrettanto decisive: le attività invisibili che consumano tempo senza apparire, la percezione soggettiva del carico che rivela squilibri difficili da quantificare, l’impatto degli strumenti tecnologici che possono semplificare o complicare la vita quotidiana, e infine la cultura organizzativa, terreno fertile - o arido - su cui ogni calcolo prende forma.
Tenere insieme queste dimensioni significa trasformare un esercizio aritmetico in una vera e propria decisione strategica: perché non basta chiedersi “quante persone servono”, ma piuttosto “in quale contesto, con quali competenze, con quali strumenti e con quale spirito”.
Un equilibrio precario
Il dimensionamento organizzativo non è mai una decisione definitiva: è un processo che richiede revisione continua, adattamento costante e dialogo aperto. È qui che la scienza incontra l’arte: i dati danno le fondamenta, ma la sensibilità di chi prende le decisioni costruisce l’edificio.
Drucker ricordava che “management is doing things right; leadership is doing the right things” Questo, a mio avviso, è il cuore del dimensionamento: fare le cose giuste, nelle giuste proporzioni, con le giuste persone. Perché un ufficio ben dimensionato non è solo più produttivo. È più sano, più resiliente e, soprattutto, più umano.