Ci sono sentenze che non spostano denaro da un portafoglio all’altro, ma solo rimettono le cose a posto. Eppure, per l’Agenzia delle entrate, basta leggere la parola “condanna” per sentire l’odore del 3 per cento.
La Cassazione, con l’ordinanza n. 21203 del 24 luglio 2025, ha provato a ricordarle che il diritto non funziona come un motore di ricerca: non basta trovare una parola chiave per far partire l’imposta proporzionale.
Il caso era quello di un mandato fiduciario di “tipo germanico” (avendo la mandante affidato al mandatario la gestione di una somma di denaro derivata dalla vendita di un immobile di sua proprietà) nel quale, diversamente dal mandato fiduciario di origine “romanistica”, si verifica una separazione tra titolarità formale del diritto e legittimazione al suo esercizio: niente effetti traslativi, il fiduciario amministra per conto altrui, la titolarità resta al fiduciante. Alla morte del mandatario, gli eredi si tengono le somme gestite come se fossero loro. Il giudice interviene, dichiara estinto il mandato e ordina la restituzione di euro 7,44 milioni.
Fine della storia? No: l’Agenzia registra la sentenza applicando il 3 per cento “perché c’è condanna al pagamento”. Come se restituire ciò che non era tuo fosse un arricchimento.
Il ragionamento dell’Ufficio è di una linearità disarmante: pagamento → condanna → imposta proporzionale (223.200 euro facevano gola).
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