Quando il fisco può utilizzare le presunzioni “supersemplici”?
di Alessandro Borgoglio
In una parte non trascurabile degli accertamenti d’iniziativa, a carattere generale, la metodologia utilizzata dall’Amministrazione finanziaria ha a che vedere con le presunzioni, siano esse qualificate, per l’accertamento cosiddetto analitico-induttivo ex articolo 39, comma 1, lett. d), del Dpr 600/1973 (chi scrive preferisce l’espressione analitico-presuntivo), o non qualificate, anche dette supersemplici o semplicissime, per l’accertamento induttivo puro ex articolo 39, comma 2, del Dpr 600/1973 (analoghe norme sono presenti nel Decreto IVA).
Secondo il costante orientamento di legittimità, il giudizio di complessiva o intrinseca inattendibilità delle scritture contabili, ancorché formalmente corrette, costituisce presupposto per procedere col metodo analitico-induttivo, da valutarsi sulla base di presunzioni (semplici qualificate) ex articolo 39, comma 1, lett. d), del Dpr n. 600/1973, cioè gravi, precise e concordanti, richiedendo, invece, l’accertamento induttivo puro - che consente di avvalersi di presunzioni c.d. supersemplici, prive cioè dei requisiti di gravità, precisione e concordanza - la ricorrenza di una delle tassative condizioni previste dall’articolo 39, comma 2, del citato decreto. Anche laddove ne ricorrano i presupposti, l’accertamento induttivo puro costituisce una facoltà per l’Amministrazione finanziaria, che può prescindere anche solo in parte dalle scritture contabili e dal bilancio. Né è richiesta alcuna specifica motivazione per l’utilizzazione di dati indicati in contabilità o in dichiarazione o comunque provenienti dallo stesso contribuente, anche a fronte di un giudizio di complessiva inattendibilità della contabilità, purché la ricostruzione avvenga sempre secondo criteri di ragionevolezza e nel rispetto del parametro costituzionale della capacità contributiva (tra le ultime, Cass. 16498/2024).
Il maggior rigore imposto per l’adozione dell’accertamento induttivo puro - ovvero i tassativi casi-presupposto previsti dal comma 2 dell’articolo 39 (tra cui rientra, per esempio, l’omessa risposta al questionario/invito documentale dell’Ufficio) - nasce dalla maggiore ampiezza di potere concesso al Fisco in tal caso, potendo, appunto, utilizzare presunzioni supersemplici (anziché qualificate come per l’accertamento analitico-induttivo), cioè, per sintetizzare, dotate di una minore attendibilità probatoria.
È però sempre necessario che, anche utilizzando l’accertamento induttivo puro, la ricostruzione avvenga secondo criteri di ragionevolezza e nel rispetto del parametro costituzionale della capacità contributiva: come a dire che, se ci sono i presupposti per l’induttivo puro, è ben vero che il Fisco può prescindere anche totalmente dalle scritture contabili, se ritiene, e utilizzare degli elementi presuntivi meno forti rispetto a quelli richiesti dalle altre metodologie accertative, ma è comunque necessario che la ricostruzione induttiva del volume d’affari o dei ricavi abbia una sua logicità e ragionevolezza, nel rispetto del principio costituzionale della capacità contributiva.
Viene da chiedersi, allora, fino a dove può spingersi l’ufficio nell’utilizzo di presunzioni supersemplici?
Il Fisco può, per esempio, avvalersi delle varie percentuali medie di ricarico del settore di appartenenza per ricostruire i ricavi d’impresa. Anche recentemente lo ha ribadito la Suprema Corte, stabilendo che il comportamento del contribuente che ometta di rispondere ai questionari previsti dall’articolo 32, comma 1, numero 4), del Dpr n. 600/1973 e non ottemperi alla richiesta di esibizione di documenti e libri contabili relativi all’impresa esercitata, impedendo in tal modo, o comunque ostacolando, la verifica dei redditi prodotti da parte dell’Ufficio, vale di per sé solo a ingenerare un sospetto sull’attendibilità di dette scritture, rendendo grave la presunzione di attività non dichiarate desumibile dal raffronto tra le percentuali di ricarico applicate e quelle medie del settore, e, conseguentemente, legittimo l’accertamento induttivo puro emesso su quella base dall’Ufficio ai sensi dell’articolo 39, comma 2, del Dpr n. 600/1973 (Cass. 13018/2025).
Non può, invece, l’ufficio, anche qualora il contribuente non abbia risposto all’invito ex articolo 32 a fornire la documentazione contabile, ricostruire i ricavi aziendali attraverso una mera e semplice operazione meccanica e matematica di traduzione dei costi sopportati per il personale in maggiori ricavi accertabili, e ciò anche in presenza di un risultato economico esiguo.
I Giudici del Palazzaccio, proprio recentemente (Cass. 14824/2025), hanno stabilito, infatti, che, se la sperequazione fra l’importo ragguardevole dei costi per i lavoratori dipendenti e il margine esiguo degli utili può postulare una ricostruzione induttiva dei ricavi, essa non vale certo a giustificare che i maggiori ricavi vengano fatti coincidere pedissequamente con gli esborsi effettuati per il personale. Invero, un costo non implica di per sé - e in automatico - un immediato e corrispondente ricavo, essendo insito fisiologicamente nel sostenimento di un esborso l’assunzione di un rischio d’impresa, che può proiettarsi in un ricavo, come pure per definizione non conseguirlo affatto.
Il criterio adoperato dall’ufficio nel caso di specie era, per ciò, illogico e imperscrutabile e, quindi, è stato bocciato dalla Suprema Corte.
Le cosiddette ricostruzioni indirette del Fisco, insomma, anche se operate nell’ambito dell’accertamento induttivo puro, con presunzioni supersemplici, non possono non tener conto dei criteri di ragionevolezza e di capacità contributiva, che postulano, evidentemente, che non sempre ai costi sostenuti corrispondono almeno altrettanti ricavi.