Quando il Ccnl “batte” la legge e la tecnologia: il monito della Cassazione alle aziende
di Claudio Garau
Il diritto del lavoro è uno dei rami giuridici nevralgici per la società. Tra le sue norme troviamo obblighi, contratti e regole che disciplinano un equilibrio delicatissimo: quello tra l’esercizio del potere datoriale e la tutela della dignità del lavoratore. In un mondo ideale, la logica – o più semplicemente il buon senso – governerebbe ogni aspetto dell’impianto legislativo, rendendo le sentenze giudiziarie quasi prevedibili. Nella realtà, però, le dispute in tribunale richiedono interpretazioni e valutazioni che la legge da sola non sempre fornisce, lasciando al giudice un ruolo determinante nella mediazione tra norme e situazioni concrete.
Proprio perché il rapporto di lavoro è un terreno in cui opposti interessi si intrecciano, la giurisprudenza si trova spesso a dirimere conflitti che il legislatore non ha potuto o saputo prevedere. Non solo. Talvolta, i conflitti si risolvono in modo inaspettato e quasi anti-etico. Una sorta di cortocircuito delle norme giuslavoristiche, che la magistratura lascia trasparire.
Ci sono casi giudiziari che valgono più della somma dei singoli fatti. Vicende capaci di fissare un principio di diritto e, allo stesso tempo, lanciare un messaggio a tutte le aziende italiane. Un monito più “rumoroso” di una norma di legge. Ebbene, la recente sentenza n. 30822/2025 della Cassazione appartiene proprio a questa categoria e impone una riflessione più profonda, di quanto il caso concreto possa far immaginare in un primo momento.
La questione è solo in apparenza di ovvia soluzione. Un croupier di un casinò, ripreso da una videocamera mentre si appropria di due banconote da 100 euro, subisce un licenziamento disciplinare. Le immagini parlano da sole, la condotta è inequivocabile. Eppure, la sanzione viene – in seguito – annullata non soltanto dalla corte territoriale, ma anche da quella di legittimità. E non perché, si badi bene, la sottrazione di beni non sia materialmente avvenuta, ma perché la relativa prova non poteva essere usata contro il lavoratore.
In circostanze come queste molti titoli di giornali si fermano qui, sorprendendosi (ancora oggi) di una giustizia al contrario. Usano il titolo ad effetto per raccogliere clic e visualizzazioni. Ma, a parere di chi scrive, la decisione della Suprema Corte va un po’ più in là e ci racconta qualcosa di molto più complesso e attuale. Merita di essere spiegata e capita.
Certo, il furto – e per di più sul luogo di lavoro – rappresenta un fatto carico di disvalore sociale, ma questo, dice la Cassazione, non basta se la prova è – per legge – illegittima. È un po’ come se la forma costringesse la sostanza a rientrare nei binari della legalità e del diritto positivo, ricordandoci che anche la verità più scomoda non può essere accertata, violando le regole del gioco.
È uno di quei casi in cui la verità processuale prevale sulla realtà dei fatti e sulla violazione del vincolo fiduciario e degli obblighi civilistici di lealtà, buona fede e correttezza.
Con una complessa argomentazione logico-giuridica, nella pronuncia in oggetto la Cassazione non intende di certo assolvere il comportamento dell’uomo, sul piano etico. Anzi. Ma afferma qualcosa di diverso e che al senso comune – ed anzi al buon senso – sfugge con facilità. Le immagini sono inutilizzabili perché le parti sociali, alla stesura del contratto collettivo, hanno posto limiti stringenti all’uso delle riprese video. E questi limiti prevalgono sempre. Anche adesso e anche nel futuro.
È l’autonomia negoziale che ha la meglio su un principio al contempo giuridico ed etico. Il messaggio è divisivo: non si può sacrificare la legalità tecnico-probatoria sull’altare morale della gravità dell’illecito.
La volontà delle parti sociali scavalca la portata generale della legge vigente, alla luce della riforma del Jobs Act. Siccome l’accordo collettivo ha fatto propri i dettami di un’anteriore autorizzazione dell’Ispettorato, che – di fatto – impediva l’utilizzo “trasversale” delle immagini raccolte, tale volontà si cristallizza nel corso del tempo. Rimane come impressa nella roccia, a nulla potendo la legge successiva.
Nella sentenza 30822/2025, la Cassazione ha distinto chiaramente: le vecchie autorizzazioni dell’Ispettorato che vietavano l’uso disciplinare delle immagini, sono “sterilizzate” dalla riforma giuslavoristica del 2015. Oggi la normativa consente l’uso delle telecamere a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro (articolo 4 comma terzo dello Statuto dei lavoratori, come modificato dal D. lgs. n. 151/2015). Tuttavia, nello specifico caso in oggetto, l’utilizzo della prova video rimaneva comunque vietato, per espressa previsione del Ccnl applicato.
La conclusione giurisprudenziale non è in grado di mettere tutti d’accordo. L’accetteranno i giuristi e lo gradiranno i dipendenti poco inclini al rispetto della legalità. Ma non lo apprezzeranno gli imprenditori. I datori di lavoro che confidano nella videosorveglianza come moderno strumento di tutela dell’impresa, resteranno delusi e spiazzati. Anche quando la condotta è grave e apparentemente incontestabile, un dettaglio contrattuale può trasformare una prova potenzialmente decisiva in un elemento inutilizzabile.
A ben vedere, il cuore del problema sta in questa domanda: chi decide i limiti dei controlli? Il discusso Jobs Act ha ampliato l’utilizzabilità delle immagini raccolte sul luogo di lavoro. Oggi, dicevamo, le riprese di impianti installati, per ragioni organizzative e sicurezza, possono essere usate anche ai fini disciplinari, purché i dipendenti siano previamente informati e siano rispettate le norme sulla privacy.
Ma cosa accade quando un contratto collettivo ha posto limiti più stringenti? Almeno in qualche caso può la legge “cancellare” quella tutela più favorevole? La Cassazione risponde con nettezza: no. Se il Ccnl protegge il lavoratore con maggior forza, quella clausola resta perfettamente valida anche dopo la riforma di dieci anni fa. Prevale sulla legge successiva, pur giusta, al passo con i tempi e inappuntabile. Sia per i casi come quello del croupier, sia per tanti altri in cui la raccolta immagini potrebbe rivelarsi decisiva ai fini disciplinari.
Questa pronuncia dei giudici di piazza Cavour contiene, in fondo, un implicito monito a tutte le imprese: la tecnologia non è un lasciapassare. Certamente, è uno strumento tecnico in grado di incrementare il fatturato e migliorare le performance dei dipendenti (basti pensare alle potenzialità dell’IA), ma attenzione: i luoghi di lavoro sono ormai i saturi di strumenti digitali, tra cui telecamere, software di controllo, badge intelligenti, sistemi di tracciamento, sensori IoT.
C’è – quindi – la (erronea) tendenza a ritenere che, se lo strumento è installato regolarmente, i dati raccolti possono essere usati liberamente, in qualsiasi momento o condizione. E per qualsiasi ragione. Questa sentenza ci dice esattamente il contrario: non basta che il dispositivo sia legittimo e che faccia il suo “lavoro”. Bisogna verificare cosa dice il contratto collettivo applicato.
Luoghi di lavoro come i supermercati videosorvegliati, i negozi con telecamere alle casse, gli uffici con sistemi di monitoraggio degli accessi, le attività di gioco o di intrattenimento con riprese costanti, non possono dare per scontata l’utilizzabilità disciplinare di tutto ciò che registrano. La Tecnica si scontra con il Diritto e, se è vero che la tecnologia aiuta a tutelare il patrimonio dell’azienda – lo dice la legge stessa – al contempo non può sovrapporsi all’autonomia negoziale.
A ben vedere, la pronuncia dalla Cassazione è una “vittoria” delle parti sociali, spesso accusate di essere “improduttive” e – anzi – un ostacolo ormai anacronistico all’innovazione e alla flessibilità del mercato del lavoro. Qui, invece, è stato dimostrato come la contrattazione collettiva continua a incidere in modo determinante sui rapporti di lavoro e sulle conseguenze delle azioni dei dipendenti. Il messaggio a tutti i lavoratori è che la contrattazione collettiva conta ancora e non è vero che tutto sia già scritto (e prescritto) nelle leggi o nelle policy aziendali. Gli spazi per tutelare diritti, limiti e garanzie esistono ancora, purché si continui a negoziare.
In un’epoca in cui si parla molto di flessibilità, di “deregolamentazione” e di contrattazione individuale, la decisione in oggetto – pur discutibile nel suo esito per le parti in causa – ci ricorda, allora, un fatto semplice ma spesso sottovalutato: i Ccnl servono tuttora. Eccome. Non sono meri accessori burocratici o noiosi orpelli formali, ma pilastri che regolano i rapporti di lavoro e garantiscono equilibrio, tutela e prevedibilità sia per il datore che per il dipendente. E se scritti in modo “virtuoso”, possono offrire tutele più forti della legge, diventare uno strumento concreto per equilibrare i rapporti tra aziende e personale, garantendo presìdi e protezioni che altrimenti la normativa generale non assicurerebbe al 100 per cento.
Le parti sociali, quando decidono insieme, possono costruire regole che restano valide anche dopo un intervento legislativo più permissivo. E’ un segnale importante per chi crede nel ruolo delle associazioni sindacali che, nonostante il calo di iscrizione degli ultimi decenni, la crescente frammentazione del lavoro e l’onnipresente burocrazia, continuano a svolgere una funzione strategica nel tutelare i diritti dei dipendenti. Bocciando così l’idea che siano sul viale del tramonto.
Concludendo, quello risolto con la sentenza n. 30822 della Cassazione è di certo un caso “scomodo”, ma avente il pregio di contribuire a chiarire i rapporti tra legge e contrattazione collettiva. Si può essere d’accordo o meno sull’esito “etico” e sostanziale della vicenda, ma la sentenza, a parere di chi scrive, non va interpretata come una sorta di premio al lavoratore, come un salvagente per “furbetti” dalla mano di velluto. Rappresenta, invece, un richiamo forte: le regole valgono sempre, anche quando il fatto contestato è grave. E la privacy dei lavoratori è ancora un terreno di garanzia solida, nonostante le enormi potenzialità (anche pervasive) della tecnologia.
Il giudice non ha perso il senno e non ha negato la gravità della condotta. Ha affermato che non tutto ciò che è vero e accaduto, può essere utilizzato come prova in aula. Nell’era delle immagini e dei dati condivisi sul web, il limite e il divieto non sono di certo insiti nella tecnologia in sé, ma nella legalità delle sue applicazioni. E tutte le aziende devono, o dovrebbero, conoscere bene i contratti collettivi (e non solo la legge). Per evitare brutte sorprese, anche in Cassazione.


