Quando il bar del circolo diventa un'impresa: cosa cambia dopo la Cassazione 25416/2024
di Pamela Rinci
Nel mondo del Terzo Settore c’è una vecchia convinzione dura a morire: se sei un’associazione, puoi somministrare caffè e panini ai soci senza problemi fiscali “tanto siamo un circolo culturale”.
La realtà – lo insegna la prassi e ora lo ribadisce con forza la Cassazione (Ordinanza n. 25416 del 23/9/2024) – è tuttavia molto diversa. Non basta l’etichetta “no profit” per evitare imposte, tasse, accertamenti e sanzioni. Il confine tra attività istituzionale e commerciale si gioca sui fatti concreti, non sulle buone intenzioni.
Il caso della pronuncia: il bar del circolo che sembrava un normale locale pubblico
L’Agenzia delle Entrate aveva accertato che un circolo ARCI, formalmente senza fini di lucro, gestiva un punto ristoro con modalità analoghe a un normale bar, quindi con:
accesso non rigorosamente limitato ai soli soci;
prezzi analoghi a quelli del mercato;
menù affissi all’esterno;
gestione assimilabile a un’attività economica vera e propria.
La Cassazione ha confermato che in queste condizioni si perde la “copertura” dell’attività istituzionale e scatta la qualificazione commerciale, con conseguente applicazione di:
IVA (Dpr 633/1972),
IRES e IRAP (Tuir, articolo 148),
sanzioni per omessa o infedele dichiarazione,
obblighi contabili, anche retroattivi.
I due requisiti chiave: strumentalità ed esclusività
Secondo la Corte, per poter rientrare nel regime agevolato previsto dal Tuir, articolo 148, commi 3-8 e dall’articolo 4, comma 4, Dpr 633/1972 (IVA), devono coesistere entrambe le seguenti condizioni:
Strumentalità all’attività istituzionale: la somministrazione deve servire a promuovere la finalità culturale, mutualistica, sociale dell’ente. Se il bar diventa il “core business” del circolo, la strumentalità si dissolve.
Esclusività nei confronti dei soci: Il servizio deve essere riservato solo agli associati. Niente accessi occasionali di amici, familiari, visitatori “terzi”. Niente promozione o menù leggibili dall’esterno. Nemmeno un’eccezione, perché il fisco (e i giudici) sono netti: l’attività, per restare istituzionale, non deve mai essere commerciale.
L’onere della prova è dell’associazione
La Cassazione ricorda che l’associazione deve dimostrare con elementi oggettivi:
il rispetto delle condizioni di legge e lo scopo a titolo solidaristico e gratuito;
l’assenza di finalità lucrative;
la reale chiusura verso i non soci.
Non bastano lo statuto conforme, l’affiliazione a un ente nazionale (ARCI, CONI, ACLI…), né la forma giuridica di “associazione riconosciuta o non riconosciuta”.
Perché questa sentenza è importante
L’ordinanza n. 25416/2024 della Corte di cassazione segna un punto fermo nella giurisprudenza fiscale e civilistica in materia di enti del Terzo Settore (ETS), e in particolare delle associazioni che svolgono attività di somministrazione all’interno di circoli culturali o ricreativi.
Negli anni, la prassi amministrativa e la giurisprudenza di merito avevano spesso mostrato un atteggiamento tollerante o ambivalente verso i cosiddetti “bar associativi”, soprattutto quando formalmente riservati ai soci e collegati, almeno in apparenza, a finalità aggregative o mutualistiche.
Tuttavia, questa pronuncia rompe definitivamente con quella prassi, affermando un principio di sostanza economica prevalente sulla forma giuridica. Non basta più essere un’APS o un circolo affiliato ad ARCI o altre reti riconosciute per beneficiare di esenzioni: l’attività dev’essere reale, tracciabile, coerente con lo scopo non lucrativo, e verificabile nei fatti.
Le conseguenze pratiche sono rilevanti per più soggetti:
Gli enti associativi che svolgono attività di somministrazione anche in forma marginale dovranno:
rivalutare se tale attività sia davvero strumentale e accessoria, o se sia diventata “prevalente” e quindi di natura commerciale;
garantire un controllo rigoroso sugli accessi, con registro soci aggiornato, tessere identificative e verifica all’ingresso;
evitare qualunque forma di promozione pubblica (es. cartelli, menù affissi all’esterno, segnaletica visibile dalla strada), che possa configurare l’attività come diretta al pubblico indistinto.
I professionisti (commercialisti, avvocati) dovranno:
aggiornare i propri clienti sulle implicazioni della sentenza;
verificare l’inquadramento civilistico e fiscale delle attività svolte da ogni singolo ente;
segnalare eventuali situazioni a rischio di riqualificazione retroattiva da parte dell’Agenzia delle Entrate.
Il RUNTS e gli uffici delle Regioni/Province delegate, nonché gli ispettori del Ministero del Lavoro, l’organo di vigilanza, saranno chiamati a:
verificare la coerenza statutaria, cioè che le attività accessorie siano previste nello statuto e svolte nei limiti dell’articolo 6 del Codice del Terzo Settore;
controllare la tracciabilità dei ricavi: incassi da attività istituzionale vs. incassi da attività commerciale (articolo 13 CTS);
segnalare eventuali incongruenze per la revoca della qualifica di ETS e, nei casi più gravi, per l’avvio di accertamenti tributari o procedure ispettive.
In sostanza, la Cassazione impone agli ETS di scegliere consapevolmente se vogliono essere enti non lucrativi con attività economiche accessorie, oppure vere e proprie imprese sociali o commerciali (che hanno altri obblighi fiscali e contabili).
Non è più possibile “navigare a vista” tra status giuridico e comportamento economico.
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Verificare l’accesso ai locali: consentito solo ai soci con tessera valida.
Rendere visibile lo statuto: deve essere aggiornato e includere l’attività di somministrazione come attività secondaria e strumentale.
Diversificare i prezzi: evitare listini standard simili a quelli del mercato.
Non pubblicizzare l’attività: niente cartelloni o menù leggibili dalla strada.
Tenere registri e documentazione: che dimostrino la natura associativa delle attività (presenze, bilanci, verbali).
Monitorare con revisori o consulenti: la corretta tenuta contabile, gli adempimenti fiscali obbligatori e il rispetto delle finalità associative.
Una riflessione finale
La recente giurisprudenza della Corte di cassazione impone agli enti del Terzo Settore un cambio di paradigma ormai non più rinviabile: l’identità associativa non può essere utilizzata come schermo per l’esercizio di attività economiche a carattere sistematico. La distinzione tra attività istituzionale e commerciale non è meramente formale né affidata alla dichiarazione di volontà dell’ente, ma deve essere fondata su elementi sostanziali, verificabili e documentabili.
In questo contesto, la gestione della somministrazione di alimenti e bevande da parte di circoli culturali o ricreativi non può prescindere da una valutazione tecnica e prudente della sua effettiva natura giuridico-tributaria. Laddove l’attività assuma i tratti dell’impresa, con apertura generalizzata, prezzi di mercato e modalità organizzative tipiche di esercizi pubblici, essa non potrà essere ricondotta all’alveo dell’attività istituzionale agevolata, a prescindere dallo statuto o dall'affiliazione a reti associative nazionali.
È quindi compito primario degli amministratori e dei consulenti degli ETS adottare modelli organizzativi coerenti con i presupposti di legge, garantendo il rispetto dei vincoli statutari, la tracciabilità dei ricavi e l’adozione di presìdi interni di controllo. Solo in questo modo sarà possibile preservare la qualifica di ente no profit, evitare riqualificazioni retroattive da parte dell’amministrazione finanziaria e mantenere la fiducia del legislatore e dei cittadini nel sistema del Terzo Settore.