Quale banca, quale impresa? Una riflessione sulle fonti finanziarie
di Francesco M. Renne
Il “rapporto banca-impresa” è citato (per necessità) quando si parla (spesso tardivamente) di crisi d’impresa, vuoi per l’accesso a “nuova finanza” o vuoi per le misurazioni della sostenibilità del debito. Se ne parla (periodicamente) in relazione ai dati di Banca d’Italia sui volumi di affidamenti concessi dalle banche, non comprendendone (a volte) la portata della tendenza in atto. Lo si cita (poco), però, quando si commenta il “risiko” bancario in corso, che comporta come effetto, a seguito di (auspicabili, sotto il profilo della competitività Paese) diverse aggregazioni bancarie, che il credito concesso alle imprese già clienti delle banche risultanti dall’aggregazione non venga mantenuto nella somma degli affidamenti in essere precedentemente alla fusione. Manca però, ad avviso di chi scrive, una (vera) consapevolezza della “natura” del problema: “quali” fonti (finanziarie) e per “quali” imprese. Quasi che si sia diffuso il concetto che “l’effetto” (i.e. i costi del debito, il suo volume e la sua accessibilità, la sua sostenibilità) non dipendano dalla “causa” (i.e. il suo utilizzo, il ciclo economico contingente, il settore di appartenenza, la rischiosità specifica dell’impresa prenditrice di quel debito).
L’attuale perimetro di analisi (e di dibattito) tecnico-professionale è infatti spesso orientato (quasi) solo a disquisizioni giuridico-lessicali delle norme societarie e/o del codice della crisi e/o della definizione di procedure standard di controllo o valutative, come se “l’oggetto” sia (solo) la “forma” (pur importantissima, intendiamoci) e non (soprattutto) la “sostanza”, ovvero “l’origine” di ciò che si misura. E, di conseguenza, anche il Legislatore (purtroppo) e i mezzi di informazione (anch’essi in parte colpevoli) “leggono” spesso questi temi interpretandoli con spiegazioni ex-post che non colgono l’interezza dei fenomeni che si vorrebbero invece osservare. Quindi, ecco molte dissertazioni giustificazioniste (calo della domanda di credito quale alibi per i dati oggettivi di credit crunch attuali) e difficili equilibrismi legislativi (dichiarazioni di sostegno all’economia, ma riduzione del volume a disposizione del fondo centrale di garanzia allocato nel bilancio dello Stato) a fronte di molteplici lamentele operative (per la rigidità nella gestione delle contro-garanzie statali nei casi di crisi, avendo perso l’occasione di introdurre forme di “matusalem financing”) e finanche populiste (banche, a prescindere, “brutte e cattive”).
Cercando di proporre una visione d’insieme il più possibile efficace, invece, occorrerebbe seguire alcuni ragionamenti successivi, per comprendere meglio il contesto macro (economico-finanziario) e cercare di avere una maggiore razionalità nelle scelte finanziarie (delle singole imprese).
Lo scenario di probabili future concentrazioni in ambito bancario, in Italia (non solo quelle di cui parlano i giornali) e in Europa, è una necessità competitiva. Per il sistema finanziario, in primis; per il sistema Paese, nondimeno, poiché la dimensione media delle banche italiane è bassa e l’evoluzione di questo comparto di mercato richiederà sempre più investimenti in tecnologia e compliance. La tendenza alla disintermediazione in atto (dalle piattaforme fintech di “circolante”, che intervengono nello smobilizzo dei crediti e/o del magazzino; a strumenti di fondi di debito, alternativi al medio-termine bancario) appare in continua espansione, nonostante i maggiori costi applicati, in risposta alla diminuzione dell’offerta di credito da parte delle banche tradizionali. Il trend di accesso al credito tradizionale continua ad attraversare una fase di contrazione (i.e. “credit crunch”), vuoi per le incertezze macroeconomiche sul futuro (che impattano sulla domanda di credito) che per la “selezione avversa” al rischio (che impatta sul lato dell’offerta), richiesta dalla maggiore regolamentazione di vigilanza (per rendere più sostenibile il comparto bancario a tutela del risparmio) che ha innescato una correlazione “inversamente proporzionale al rischio” (maggior rischio, minore disponibilità di credito) e una “direttamente proporzionale al livello dimensionale” (maggiori dimensioni, maggiore disponibilità di credito) del soggetto prenditore.
In siffatto contesto, le imprese dovrebbero agire con la massima razionalità nelle loro scelte finanziarie. Intanto, stante il grado di priorità nelle valutazioni dei meccanismi di rating, implementare obiettivi, nell’ordine, di monitoraggio dei flussi di cassa prospettici (effetto sul DSCR), di riduzione degli attivi circolanti (effetto sugli indici di redditività), di mantenimento e/o realizzo di soglie di buffer di patrimonio netto (effetto di assorbimento patrimoniale della volatilità dei cicli economici e di settore) e di ricerca di miglioramento della marginalità operativa (effetto di generazione di flussi di cassa destinabili al servizio del debito). Poi, considerando che in termini di costo medio ponderato del capitale (WACC) il costo dell’equity è maggiore del costo del debito, individuare il mix delle fonti ottimale (alzando il grado di leverage nei limiti della sua sostenibilità, dato dalla leva finanziaria operativa – cioè, incremento di ROI maggiore dell’incremento del ROD – e dall’equilibrio dei flussi al servizio del debito – cioè, DSCR prospettico positivo). Infine, ricorrendo anche a forme tecniche di indebitamento innovative e (possibilmente) a medio-lungo termine, tenuto conto che la “regola dell’assorbimento dei flussi di cassa” dice che occorrerebbe sempre scegliere le fonti di finanziamento in relazione al minor assorbimento di flussi di cassa (rate capitale e costo di interessi) attualizzati nel tempo (anche se a maggior costo puntuale di interessi), poiché in tal modo si riduce lo “sforzo finanziario” di rimborso (i.e. la sottrazione di flussi di cassa al servizio del debito dal ciclo produttivo di marginalità).